Recentemente l’economista italiano Alberto Bagnai (docente presso l’Università di Pescara) ha pubblicato un articolo sul suo blog, scagliandosi contro uno degli economisti più conosciuti della MMT, Stephanie Kelton (docente presso l’Università del Missouri-Kansas City). L’oggetto del contendere sarebbe un tweet della Kelton che (secondo le parole dello stesso Bagnai) dimostrerebbe come, secondo la MMT, ” la curva di Phillips sia morta: le banche centrali, con le loro sagge politiche (cioè “stampando” meno moneta) avrebbero domato questa bestia feroce, e inoltre, all’abbassarsi del livello, sarebbe anche calata la reattività dell’inflazione alla disoccupazione, che quindi non spiegherebbe più nulla. Nessuna relazione fra disoccupazione e inflazione, l’inflazione fenomeno monetario… Sarà mica che la storia, com’è quel detto, si ripete la prima volta come Friedman e la seconda come Kelton?”.
Parole che sono una pura interpretazione dello stesso Bagnai (il quale infatti ammette nel suo incipit: “mi par di capire….“), che lasciano però chiaramente intendere al lettore (in maniera evidentemente del tutto strumentale?) che:
1) Secondo la MMT non esiste alcun nesso fra tasso di disoccupazione e tasso d’inflazione, come invece afferma la curva di Phillips (vedremo fra poco di cosa si tratta).
2) Secondo la MMT l’inflazione sarebbe un “fenomeno puramente monetario”, che quindi, a cascata, sarebbe arginabile tramite una Banca Centrale che controlla la quantità di moneta (in sostanza, si tratta dell’idea che i monetaristi hanno riportato in auge in epoca moderna a partire da Milton Friedman e che è diventata, per esempio, l’architrave dello Statuto della Banca Centrale Europea).
Si tratta, ed è bene sgombrare il campo da ogni dubbio immediatamente (prima ovviamente di scendere nei dettagli sollevati dai due punti precedenti), di obiezioni totalmente infondate, come comprovato dall’amplissima letteratura accademica e non solo di stampo MMT a partire dall’inizio degli Novanta. Pertanto, onde evitare fraintendimenti per i lettori sia del nostro sito che del blog di Bagnai e cercando di rimanere sempre nell’alveo di un dibattito costruttivo e rispettoso, è bene replicare alle due (presunte) obiezioni sollevate da Bagnai. Ricordando che al momento la Kelton non conoscendo l’italiano difficilmente potrebbe rispondere di suo pugno.
Ma, andiamo con ordine. Primo: che cos’è la curva di Phillips menzionata da Bagnai e presunto pomo della discordia? In sostanza si tratta di uno strumento di analisi macroeconomica che prende il suo nome dall’economista australiano Bill Phillips, il quale pubblica nel 1958 uno studio statistico che mostra la relazione fra il tasso di disoccupazione e il tasso di variazione dei salari nel Regno Unito dal 1861 al 1957; concludendo che al diminuire del tasso di disoccupazione i salari aumentano e viceversa (vedi grafico in basso).
Come vedete, il grafico riporta sull’asse orizzontale la media del tasso di disoccupazione e su quello verticale la variazione dei salari monetari, la curva ci dice che all’aumentare del tasso di disoccupazione il tasso di variazione dei salari monetari diminuisce e viceversa.
Nel 1960, partendo dallo studio di Phillips, due economisti americani, Paul Samuelson e Robert Solow, pubblicano un articolo simile a quello di Phillips sul Regno Unito, utilizzando i dati relativi agli Stati Uniti nel periodo compreso fra il 1934 e il 1958. I due americani, però, compiono un ulteriore passo in avanti, che sarà fondamentale per dare alla Curva di Phillips quella veste sotto la quale sarà conosciuta e utilizzata negli anni a venire: i due affermano che, dal momento che il salario monetario costituisce una fetta consistente dei costi totali a livello di impresa, una variazione del tasso di crescita del salario monetario genererà una corrispettiva variazione nel livello generale dei prezzi. Ecco, dunque, che la Curva di Phillips assume, nella loro versione, una nuova ottica: affermando l’esistenza di una correlazione inversa (come si dice in gergo di un trade-off) fra tasso di disoccupazione e tasso di inflazione (livello generale dei prezzi). Tale correlazione inversa viene espressa graficamente in questa veste:
Come vedete, laddove Phillips aveva apposto sull’asse verticale il tasso di variazione dei salari monetari, Samuelson e Solow inseriscono la variazione del livello dei prezzi. Cosa ci dice la curva in questo caso? Che quando il tasso di disoccupazione diminuisce, il livello dei prezzi (l’inflazione) aumenta e viceversa. La correlazione fra disoccupazione e inflazione è inversa.
Il grafico della Kelton (vedi in basso) – ripreso dal World Economic Outlook pubblicato dal Fondo Monetario Internazionale nell’aprile 2013 (p. 84) – mostra semplicemente che se questa relazione nelle economie avanzate è stata evidente fino alla metà degli anni Ottanta (spezzata blu), si è poi progressivamente affievolita nei decenni successivi (spezzata rossa), in particolare a partire dalla metà degli anni Novanta (spezzata gialla). Attenzione: il grafico mostra che la relazione è andata progressivamente scemando, ma non dice assolutamente nulla su quali potrebbero essere le cause. Non fornisce alcun tipo di spiegazione (limiti di Twitter?) sul perché.
La mancata spiegazione viene così colmata da Bagnai, il quale, da un lato, mette in bocca alla Kelton una tesi che la MMT non ha mai sostenuto, ossia che l’inflazione dipenda dalla quantità di moneta e dalla conseguente capacità della Banca Centrale di controllarne la quantità; dall’altro, offre la sua illuminante spiegazione, ammantata dal solito tono da Marchese del Grillo, scrivendo:
“Quindi le cose non stanno proprio come Stefaniuccia nostra ci racconta: non è successo solo che le banche centrali belle buone e brave ci hanno protetto. Direi piuttosto che, come spiego nel mio libro, esse hanno creato le condizioni per sbriciolare i diritti dei lavoratori, dopo di che è stato possibile dargli dei simpatici lavori precari, senza che facessero troppo gli schizzinosi sulla paga, riducendo al tempo stesso la disoccupazione e il tasso di crescita dei salari. Molti di voi questo ameno processo sul quale mamma Memmeta tace lo hanno vissuto sulla loro pelle e me lo raccontano, ed è per questo che qualche volta sono un po’ ruvido coi dilettanti: perché col culo degli altri si può essere qualsiasi cosa, anche keynesiani! […] La progressiva “flessibilizzazione” del mercato del lavoro ha tirato “in basso e a sinistra” la nostra rudimentale curva di Phillips […] Ma guarda un po’… Basta inserire nel quadro il convitato di pietra, le riforme, ed ecco che l’evidenza si riconcilia con la teoria. La curva di Phillips continua a esistere, ma c’è stato un cambiamento strutturale, le famose riforme strutturali, che si chiamano così appunto perché dovrebbero modificare la struttura dell’economia
In sostanza dice Bagnai: la curva di Phillips e la correlazione inversa tra inflazione e disoccupazione esiste ancora nel momento in cui si consideri e si pesi quanto il livello di flessibilizzazione del lavoro incida sul dato della disoccupazione (abbassandolo artificiosamente). Se considero occupati (e quindi fuori dal calcolo del tasso di disoccupazione) persone che in realtà sono precarie, hanno contratti flessibili (e dunque sono più ricattabili) o sono sottoccupate il quadro cambia. In virtù di tutto questo, quindi, la veridicità della Curva di Phillips sarebbe oggi ancora valida e dimostrata (“La curva di Phillips continua a esistere, ma c’è stato un cambiamento strutturale“).
Chiude poi Bagnai con un sarcastico: “non capisco cosa abbiano i Memmetari contro questa spiegazione del processo inflattivo, ma va bene così“.
La risposta è: “Proprio niente, nulla”. Il fatto è che la disamina di Bagnai, partendo da una serie di suoi preconcetti e pregiudizi (dettati da cosa non si sa) nei confronti della scuola di pensiero MMT, sfocia nel classico caso in cui, come si dice dalle mie parti: “Uno se la canta e se la suona da solo”.
Infatti – pescando fra uno dei tanti lavori MMT sul tema – Bill Mitchell (professore all’Università di Newcastle in Australia) – da anni impegnato su tematiche inerenti al mercato del lavoro e la piena occupazione – ha scritto nell’ottobre del 2013 un eloquente articolo dal titolo Why did unemployment and inflation fall in 1990s? (traduzione: Perchè la disoccupazione e l’inflazione sono calate negli anni Novanta?).
Si tratta esattamente dell’interrogativo sorto dall’osservazione dei dati presenti nel grafico postato dalla Kelton, al quale Bagnai ha risposto chiamando in causa la componente della flessibilizzazione avvenuta in quegli anni sul mercato del lavoro, affermando al contempo che la MMT non offrirebbe una spiegazione analoga (in difesa dei lavoratori come invece farebbe lui: “Molti di voi questo ameno processo sul quale mamma Memmeta tace lo hanno vissuto sulla loro pelle e me lo raccontano, ed è per questo che qualche volta sono un po’ ruvido coi dilettanti”). E sollevando, inoltre, sinistri echi di monetarismo che starebbero alla base della MMT.
Dunque, per amore del confronto e del diritto alla più completa informazione dei lettori poco familiari con l’inglese, vorrei riportare alcuni passaggi salienti di quello che Bill Mitchell (ripeto: uno dei massimi accademici esponenti della MMT) ha scritto l’anno passato sullo stesso tema:
La domanda che quindi si pone è perché il tasso di disoccupazione e il tasso di inflazione siano entrambi calati in molte nazioni durante gli anni Novanta. Che cosa significa questo per la curva di Phillips (la relazione tra disoccupazione ed inflazione)? Per capire questo fatto in maniera piena, economisti come me hanno iniziato a focalizzarsi sul concetto di eccesso di offerta di lavoro, che è una variabile chiave nel determinare sia le variazioni del livello del salario che di quello dei prezzi all’interno della cornice della Curva di Phillips. Tipicamente, la disoccupazione è stata la misura prediletta per misurare l’eccesso di offerta di lavoro […] L’approccio standard della curva di Phillips prevede un coefficiente negativo, statisticamente significativo, del tasso ufficiale di disoccupazione […] Cioè, quando il tasso di disoccupazione scende, si dice che il mercato del lavoro si rafforza e i lavoratori sono in posizione favorevole per chiedere un aumento dei salari monetari, il quale viene trasferito dalle imprese, che hanno il potere di fissare i prezzi, (attraverso il mantenimento del loro margine di profitto o mark up), sotto forma di incremento dei prezzi. Inoltre, va considerata la qualità del bacino di disoccupazione. E’ stato sostenuto che la “qualità” (in termini di capacità della disoccupazione di disciplinare e contenere le rivendicazioni salariali del lavoratore) sia relativa alla durata della disoccupazione e che, ad un certo punto, i disoccupati di lungo periodo cessino di esercitare una qualsiasi minaccia verso quelli attualmente impiegati. Di conseguenza, essi non disciplinano le rivendicazioni salariali di quelli attualmente occupati e non influenzano l’inflazione. I disoccupati nascosti sono ancora più distanti dal processo di fissazione dei salari. Quindi, ci si potrebbe aspettare che la disoccupazione a breve termine sia un miglior indicatore dell’eccesso di domanda nella funzione di aggiustamento dell’inflazione. Ma, mentre i disoccupati a breve termine possono essere abbastanza prossimi al processo di fissazione dei salari in modo da poter influenzare i movimenti del livello dei prezzi, c’è un’altra fonte di manodopera in eccesso, ancora più vicina e significativa, a disposizione dei datori di lavoro per condizionare il processo di contrattazione salariale – i sottoccupati. I sottoccupati rappresentano una bacino non sfruttato di potenziali ore di lavoro, che, se i datori di lavoro desiderano, possono essere chiaramente redistribuite fra un bacino più piccolo di persone senza costi relativi. È ragionevole ipotizzare, quindi, che i sottoccupati rappresentino una minaccia efficace per i lavoratori a tempo pieno, che potrebbero essere in una miglior posizione per impostare le norme salariali nell’economia. Questo argomento è coerente con le ricerche nella letteratura istituzionalista, che mostra come la determinazione del salario sia ad appannaggio degli addetti ai lavori (i lavoratori) che innalzano barriere per preservare se stessi dalla minaccia della disoccupazione. […] È plausibile ipotizzare, quindi, che mentre i disoccupati di breve durata possano costituire ancora una minaccia latente maggiore rispetto ai di disoccupati di lungo periodo, i sottoccupati devono essere presumibilmente considerati un’efficace bacino di manodopera in eccesso. In tal caso, ci si potrebbe aspettare una pressione al ribasso sull’inflazione che emerga da entrambe le fonti della manodopera in eccesso.
Cosa ci sta dicendo Bill Mitchell: in sostanza, che il fatto di avere una pressione a ribasso sui prezzi (tassi d’inflazione contenuti) potrebbe essere dovuto a un’eccesso di manodopera inutilizzata che non è legato solamente alla disoccupazione di breve periodo (o in misura minore di lungo periodo) ma anche, soprattutto, ai sottoccupati (ossia lavoratori part-time, precari…). Insomma, sembra di capire che la tanto sbandierata scoperta di Bagnai sia tutt’altro che lontana da quanto la MMT sostiene da anni. E non finisce qui, Mitchell infatti utilizza i dati disponibili sul tasso di sottoccupazione dei lavoratori australiani per verificare la coerenza della sua ipotesi:
Il prossimo grafico mostra la relazione fra la disoccupazione e l’inflazione dal 1978 al 2012. Ma mostra anche la relazione fra il tasso di sottoccupazione stimato dall’Australian Bureau of Statistics e l’inflazione annuale nello stesso periodo. Le equazioni rappresentate sono la semplice regressione mostrata graficamente dalle linee rette. Il grafico mostra che la relazione negativa fra inflazione e sottoccupazione è maggiore della relazione fra inflazione e disoccupazione.
L’inclusione della sottoccupazione nella specificazione della curva di Phillips aiuta a spiegare perché i bassi tassi di disoccupazione non hanno avuto effetti inflattivi nel periodo che ha condotto alla Crisi Finanziaria Globale. E suggerisce che lo spostamento nelle modalità di funzionamento del mercato del lavoro – con maggiore lavoro occasionale e sottoccupazione – sono state significanti nello spiegare l’impatto che lo stesso mercato del lavoro ha avuto sull’inflazione da salario e sull’inflazione intesa come livello generale dei prezzi. Infine, il prossimo grafico mostra la relazione fra l’inflazione annuale e il più ampio tasso di sottoutilizzazione del lavoro (definito dall’ABS – Australian Bureau of Statistics, ndr – come la somma del tasso di disoccupazionee del tasso di sottoccupazione) tra il 1978 e il 2013. In questo caso, c’è un ben definita relzione negativa fra le due variabili (il che rinforza l’ipotesi che la sottoccupazione sia oggi un importante fattore di disciplina nel processo inflattivo).
In pratica, per spiegare che cosa rappresentano i grafici in maniera semplice: entrambi ci dicono che all’aumentare del tasso di sottoccupazione (sia che la si consideri in modo isolato, la linea rossa del primo grafico; sia che si faccia una media fra tasso di sottoccupazione e tasso disoccupazione, la linea con pendenza negativa del secondo grafico) il tasso di inflazione diminuisce e viceversa. Nel primo caso la varianza della sottoccupazione, presa isolatamente, spiega quasi il 75% di quella del tasso d’inflazione; mentre nel secondo, mettendo insieme disoccupazione e sottoccupazione il dato scende al 40%. Insomma, sembra che la sottoccupazione abbia un certo peso nello spiegare la variazione del livello dei prezzi.
Per concludere il discorso, quindi, Mitchell spiega quello che Bagnai (e ben prima di Bagnai, faccio notare) lamenta non venga spiegato e compreso dalla MMT.
Come potete vedere, quindi, quanto scritto da Bagnai rientra quantomeno nel campo della pura strumentalizzazione della MMT (si spera involontaria, ma la volontà non cambia l’effetto finale). E speriamo che questo excursus, lungo ma necessario, sia servito ai lettori per farsi un’idea più ampia e bilanciata in merito.