Fonte: http://sienanews.it/economia/il-rischio-sistemico-del-sistema-bancario-europeo-quali-soluzioni/
Conoscere la natura e i risvolti del rischio sistemico è chiave di interpretazione importante per comprendere come oggi gli eventi del mondo finanziario ed economico siano tra loro fortemente interconnessi. Per definizione il rischio sistemico ha, in sé, l’effetto contagio, sapientemente descritto in letteratura nel 2000 da De Bandt e Hartmann, come “propagazione particolarmente forte dei problemi economici da un istituto, un mercato o un sistema ad un altro”. In sintesi, un evento singolo è in grado di generare una crisi globale, propagandosi anche all’economia reale.
Ciò che spaventa, dunque, è l’effetto domino. L’evento, però, è sistemico, se provoca conseguenze strutturali su altri sistemi economici, passando da locale a nazionale e, infine, a internazionale.
L’aspetto che voglio sottolineare è che, oltre a variazioni di fondamentali dell’economia, esistono cambiamenti nelle opinioni degli investitori, di tipo psicologico e comportamentale che incidono su tale rischio. Qualsiasi banca diventa vulnerabile se i depositanti, percependo il rischio, ritirano in massa i risparmi costringendola a liquidare le attività anche in perdita e riducendone la possibilità di concedere o mantenere i prestiti attivi verso privati e aziende.
Il punto è che il rischio sistemico esiste, ma non sappiamo con certezza quando e come si manifesterà. Per questo gli innumerevoli modelli di gestione e controllo di tale rischio si evolvono in continuazione. Si discute di come affrontarlo prima e come gestirlo poi, senza chiarire bene perché non si faccia semplicemente intervenire all’occorrenza la banca centrale come prestatore di ultima istanza.
La resilienza delle banche, ovvero la loro capacità di far fronte in maniera positiva ad eventi traumatici riorganizzando tempestivamente la propria vita, oggi è misurata dagli stress test, cioè da un processo di simulazione, basato sui requisiti di Basilea II, che misura statisticamente la capacità di una banca solvente di sopportare una grave crisi economica futura.
Siamo tutti concentrati sulle banche italiane; intanto, dopo la Brexit, la più grande banca tedesca, Deutsche Bank con sede a Londra, nella dichiarazione del FMI “sembra essere il maggior contribuente netto al rischio sistemico”. Il 30 giugno la Federal Reserve annuncia che la banca tedesca ha fallito gli stress test della Fed in USA; conseguenza: discesa della quotazione del titolo, ai minimi dagli ultimi 30 anni. A dimostrazione che i problemi delle banche, nati spesso da cattiva gestione e inefficace controllo delle autorità di vigilanza, si amplificano in un contesto di crisi economica e finanziaria globalizzato. La differenza la fanno la gestione finanziaria e informativa del rischio, nonché gli interventi regolatori del sistema attraverso le politiche monetarie e fiscali.
In altri paesi come l’America, dopo il fallimento della Lehman Brothers e di altri, lo Stato è entrato d’imperio nel sistema bancario sostenendo la liquidità, riparando alle perdite e restituendo agli istituti bancari stabilità e redditività. Inoltre, Bernanke, ex presidente della Fed, specificò che, i soldi impiegati non provenivano dalle tasse dei contribuenti, ma dal potere dello Stato di emissione monetaria.
Ancora una volta non si inventa nulla: la soluzione tecnica è a portata di mano e guarda all’interesse di tutti.
Il resto è interpretazione politica.
Maria Luisa Visione

TESTO DELLA SENTENZA  “la Corte si è pronunciata in merito ad una controversia tra Regione Abruzzo e Provincia di Pescatra, relativamente al servizio di trasporto scolastico dei disabili, riconoscendo come esso sia un diritto inviolabile e da garantire senza condizionamenti finanziari”
11.− Non può nemmeno essere condiviso l’argomento secondo cui, ove la disposizione impugnata non contenesse il limite delle somme iscritte in bilancio, la norma violerebbe l’art. 81 Cost. per carenza di copertura finanziaria. A parte il fatto che, una volta normativamente identificato, il nucleo invalicabile di garanzie minime per rendere effettivo il diritto allo studio e all’educazione degli alunni disabili non può essere finanziariamente condizionato in termini assoluti e generali, è di tutta evidenza che la pretesa violazione dell’art. 81 Cost. è frutto di una visione non corretta del concetto di equilibrio del bilancio, sia con riguardo alla Regione che alla Provincia cofinanziatrice. È la garanzia dei diritti incomprimibili ad incidere sul bilancio, e non l’equilibrio di questo a condizionarne la doverosa erogazione.
Da sempre l’associazione MMT Italia ha ribadito come la Costituzione Italiana fosse fondata su un tipo di economia “funzionale”: ovvero l’economia e precisamente le finanze pubbliche sono funzionali al raggiungimento degli obiettivi che la società stessa definisce prioritari. http://docslide.it/economy-finance/finanza-funzionale-piena-occupazione-plg-e-costituzione.html
L’adozione dei Trattati Europei ha invece recepito un tipo di finanza “disfunzionale”: gli equilibri di bilancio sono stati posti ad un livello superiore rispetto alla Costituzione. A partire dal Trattato di Maastricht fino all’assurda modifica dell’articolo 81, effettuato dal Parlamento durante il Governo Monti, con il quale si è introdotto il principio del pareggio di bilancio, elemento distintivo di una finanza pubblica disfunzionale.
Per questo salutiamo la sentenza della Corte Costituzionale 275 del 2016 pubblicata il 16 dicembre come un evento storico importantissimo. La Consulta ha scritto quanto da noi riportato nel testo in corsivo e nell’immagine.
Dopo la vittoria del NO al referendum del 4 dicembre, un importantissimo tassello verso il ripristino pieno della Carta Costituzionale

Qui il link all’inchiesta di Corporate Europe Observatory:https://corporateeurope.org/economy-finance/2016/12/ecb-quantitative-easing-funds-multinationals-and-climate-change
Qui il bell’articolo in italiano di Andrea Baranes su “Non con i miei soldi“: http://www.nonconimieisoldi.org/cosa-non-va-nella-finanza/quantitative-easing-cambiamenti-climatici/
I due link che presentiamo sono esaustivi della situazione che si è creata con il “sottoinsieme” del Quantitative Easing dedicato all’acquisto di obbligazioni societarie. Ovviamente grandissime società. Un fiume di denaro pari a 46 miliardi di euro dallo scorso giugno, quando l’operazione è stata avviata, fino al 25 novembre scorso.
Mentre tutto questo accadeva e 80 miliardi al mese venivano creati esclusivamente a favore del settore finanziario, la stampa nazionale, a due giorni dalle rivelazioni di Corporate Europe Observatory, si dedicava esclusivamente alle vicende delle giunte di Roma, di Milano e ad un caso di “finta” laurea del Ministro dell’Istruzione.
Stiamo dicendo che nel corso del 2016 la Banca Centrale Europea ha creato almeno 1000 miliardi di euro dal nulla. Parliamo di una cifra pari a circa i 2/3 dell’intera ricchezza prodotta in un anno in Italia. Mentre compiva quest’azione a tutto vantaggio della parte più ricca del continente e non solo, neanche un centesimo è stato dato agli Stati e da questi a cittadini e imprese; anzi, si richiedono sacrifici e rispetti millimetrici di vincoli astratti.
Se gli europei fossero pienamente consapevoli di quanto sta avvenendo, scenderebbero in strada per una protesta infinita.
Aiutiamo comunque i giornalisti a commisurare la grandezza di quanto si decide a Francoforte con lo spazio che dedicano alle principali notizie.
Se Marra avesse intascato una tangente da 350 mila euro, il malversato della Bce corrisponderebbe a 2.857.142 volte tanto. Le scelte di Draghi e soci, dunque, pur legali, causano uno spostamento di ricchezza di 2.857.142 volte più grave rispetto ad un Marra qualsiasi.
Se facessimo questo rapporto rispetto al caso del sindaco di Milano o della nuova ministra Fedeli, otterremmo un risultato tendente all’infinito.
Eppure nessuno spende una riga per l’inchiesta di Corporate Europe Observatory.
 
 
 

Per “salvare” Monte dei Paschi di Siena l’Italia rischia di accedere ad un prestito del Mes (Meccanismo Europeo di Stabilità, cosiddetto Fondo Salva Stati) il quale chiederà in cambio il rispetto di “condizionalità”: si tratta dunque di un ulteriore atto di commissariamento dell’Italia.monte-dei-paschi-di-siena
Se si pensa inoltre a cosa è il Mes, viene da ridere. Gli Stati aderenti hanno chiesto in prestito alle banche private del denaro, pagando gli interessi richiesti, e hanno girato al Mes i fondi raccolti (per l’Italia 14 miliardi, per ora). Questi fondi dunque già soggetti ad interessi passivi per l’Italia potrebbero essere dunque di nuovo richiesti, con ulteriore aggravio sia in termini economici sia, appunto, di vincoli alla sovranità nazionale.
Pazzia finanziaria.
Intanto gli italiani si dividono tra chi critica l’aiuto dello Stato per evitare il fallimento di Monte dei Paschi e invoca il cosiddetto bail-in, e chi invece giustifica l’intervento pubblico sia in virtù dell’articolo 47 della Costituzione sia perché consapevole che lasciare totalmente la gestione del risparmio al mercato privato significherebbe aumentare eccessivamente i rischi e far incartare il sistema del risparmio.
Tuttavia sappiamo come agiscano le nazioni fuori dal mondo dorato dell’Eurozona. Gli interventi pubblici per salvare le banche vengono effettuati senza l’aumento di un solo centesimo della tassazione e senza il taglio di servizi pubblici.
Chi si allarma allora per l’intervento pubblico, dovrebbe mettere il naso al di là della cortina di ferro dell’Eurotower, e vedere come funzionano le cose nelle iper-capitalistiche nazioni degli Stati Uniti o della Gran Bretagna, ad esempio.
Noi di MMT Italia chiediamo soltanto che ciò che viene realizzato per salvaguardare il sistema finanziario venga realizzato anche a favore di famiglie, lavoratori e imprese, che non debbono vivere delle esistenze sofferte a causa di decisioni politiche mascherate da leggi naturali.
Se non credete a quello che abbiamo appena scritto, basti guardare per conferme questa breve intervista dell’ex governatore della Fed Ben Bernanke, in cui viene spiegato in che modo la banca centrale degli Stati Uniti è intervenuta per evitare il collasso del sistema bancario nazionale senza aumentare di un cent il livello dell’imposizione fiscale.

 
 

In questi giorni è abbastanza comune sentire che la vittoria del No al referendum costituzionale sia stata il frutto di una resistenza tutta italiana a qualsiasi tipo di cambiamento. Si tratta di una lettura ingenua dell’esito del voto, che lo relega ad una dimensione nazionale e contingente, mentre a mio avviso è stato l’ennesima manifestazione di una fase storica che dura da qualche decennio.

1. Tutto ha inizio con l’avvento di quella che Robert Dahl ha definito la “crisi della democrazia rappresentativa“, e che potremmo sintetizzare in questo modo. Nel secondo dopoguerra la partecipazione alla cosa pubblica ha coinvolto fasce sempre più ampie della popolazione, grazie all’estensione dei diritti sociali, civili e politici e alla diffusione e la distribuzione del benessere economico. Sebbene ciò abbia contribuito a creare stabilità e sicurezza per una quantità di famiglie che ne mai avevano beneficiato in questo modo nella storia, la crescita economica alla radice di tutto ciò è stata costruita sulla base di uno sfruttamento del lavoro che anch’esso senza precedenti, ed ha perciò portato alla luce la rivendicazione di un ampliamento della democrazia; una rivendicazione così forte da far desiderare a gruppi sempre più numerosi di persone un superamento completo dell’ordine costituito. Le classi politiche dell’epoca, vista la situazione, si sono trovate di fronte ad un bivio: rischiare di alimentare il disordine attraverso una maggiore concessione di questi diritti, o restringerne la concessione attraverso una graduale riduzione del ruolo biopolitico dei governi, e una conseguente trasformazione degli apparati pubblici in arbitri del meccanismo della competizione? Un ormai celebre rapporto del 1973 intitolato “The Crisis of Democracy“, redatto la Trilateral Commission – uno dei think tank allora più influenti in ambito euro-atlantico – indicava chiaramente una preferenza per la seconda opzione. La strategia che il rapporto ipotizzava era basata su alcuni punti fondamentali: la riduzione del potere sindacale tramite la concertazione, la riduzione della partecipazione popolare alla vita politica grazie alla diffusione di “apatia”, e in generale la preferenza per un sistema politico ed economico in cui nessun diritto viene garantito a priori, ma ognuno di essi va ottenuto tramite un meccanismo di merito.
2. In questo quadro, era naturalmente necessario che il potere dei Parlamenti fosse sensibilmente ridotto rispetto a quello degli esecutivi e che, onde evitare ulteriori contrapposizioni fra stati portatori di istanze politiche differenti, le istituzioni sovranazionali in definitiva acquisissero sempre più prerogative anche nei confronti degli esecutivi nazionali. La crescita economica sarebbe stata guidata dagli investimenti privati, e non più da una spesa pubblica che veniva vista come distorsiva degli incentivi e del sistema del merito. Per far ciò, era necessario che gli esecutivi potessero effettuare decisioni in maniera rapida ed efficiente, ovvero con meno pressioni da parte dell’elettorato, che spesso impediva l’attuazione di politiche volte ad eliminare le tutele presenti sul mercato del lavoro. Queste ultime, infatti, costituivano delle “rigidità” che impedivano al sistema delle imprese di poter investire con flessibilità, ovvero la sicurezza di poter dismettere rapidamente i propri impianti e la propria forza lavoro e ricollocare entrambi nel caso in cui vi fossero state degli shock alla domanda interna e/o un innalzamento eccessivo dei livelli salariali nei paesi. Da qui sorgeva la necessità di governi più stabili possibili nel tempo e di un sistema elettorale che garantisse la maggioranza assoluta allo schieramento vincente, poiché all’incertezza politica veniva associata un’incertezza economica in grado di trasmettersi agli investimenti e portare perciò alla fuga dei soggetti più produttivi dai paesi.
3. Fin qui sembra tutto abbastanza risaputo, se non fosse per il fatto che se l’agenda di cui sopra è stata adottata con disciplina da governi conservatori negli anni ’80, i governi cosiddetti progressisti l’hanno applicata con ancora maggior precisione a partire dagli anni ’90. Nello specifico, gli schieramenti progressisti hanno applicato alla lettera le prescrizioni provenienti da OCSE, FMI e la nascente UE, soprattutto in tre ambiti: la liberalizzazione progressiva dei monopoli nazionali e delle concessioni pubbliche con annesse privatizzazioni dei primi, la promozione di politiche di flessibilità sul mercato del lavoro e lo spostamento del focus dell’azione politica dalla “piena occupazione” alla “piena occupabilità” e l’applicazione di politiche fiscali restrittive per porre un freno all’inflazione e generare aspettative positive negli investitori in merito alla tassazione futura.
4. Questo complesso di politiche ha permesso agli schieramenti progressisti in Europa di inglobare settori provenienti dalla sinistra radicale all’interno dei governi (mentre lo stesso avveniva a destra), ma ha generato uno scollamento tra il suo blocco sociale storico di riferimento e i suoi rappresentanti politici. Infatti, mentre la divisione con gli schieramenti conservatori restava e resta tutt’ora forte in materie come ad esempio i diritti civili, la percezione del blocco sociale di riferimento dei progressisti rispetto alle politiche economiche e sociali portate avanti da questi governi è stata quella di una sostanziale identificazione con l’agenda politica di cui sopra. In sostanza, il messaggio che i progressisti hanno inviato al proprio elettorato è stato il seguente: accettate le disuguaglianze e l’impossibilità di garantire universalmente uno standard minimo di vita, in cambio avrete la possibilità di acquistare uno status sociale superiore in maniera sempre più rapida se sarete in grado di acquisire le competenze richieste sul mercato. Tuttavia, se l’amplificazione delle disuguaglianze, l’incremento della disoccupazione, la riduzione dei servizi pubblici e una crescente asimmetria del carico fiscale gravante sulla piccola imprenditoria sono stati risultati conseguiti con successo, non lo è stata altrettanto la fluidificazione della mobilità sociale, che resta più bloccata che mai, e il fenomeno della disoccupazione di lungo periodo continua a caratterizzare il mercato del lavoro nonostante gli sforzi continui a rendere “occupabili” le persone in cerca di lavoro.
5. Nel frattempo, il blocco sociale di riferimento dei progressisti è cambiato in maniera radicale. Mentre i manager delle grandi imprese, tecnicamente dei dipendenti, sono stati in grado di decuplicare le proprie retribuzioni e il loro potere sociale, sempre più figli di “proletari” hanno acquisito piccole imprese commerciali, sono divenuti (volenti o nolenti) lavoratori autonomi e professionisti, diventando tecnicamente degli imprenditori, almeno di sé stessi. Il mondo progressista però non ha saputo procedere ad un aggiornamento delle proprie categorie sociologiche di “classe”, con il risultato che a fronte dell’applicazione dell’agenda di cui sopra ampi settori di quella che viene definita classe media hanno perso un soggetto politico di riferimento e pertanto hanno completamente interiorizzato la narrazione delle élite conservatrici che ha dato origine all’agenda stessa. Se non c’è lavoro, quindi, è colpa della burocrazia e dell’inefficienza dello stato; sono i politici che hanno stipendi troppo elevati, e i vecchi lavoratori protetti vivono nella bambagia mentre legioni di giovani lavoratori non garantiti non riescono ad entrare nel mondo del lavoro. Nessun soggetto politico ha saputo raccontare a queste classi una storia diversa, che prendesse in considerazione l’effetto che politiche economiche restrittive hanno sul mercato del lavoro. Sarebbe bastato illustrare come in un’economia monetaria una crescita dei risparmi delle famiglie e dei profitti delle imprese possa essere generata esclusivamente da uno di questi tre fenomeni: 1) una crescita del disavanzo pubblico, 2) una crescita del disavanzo del settore privato tramite l’indebitamento per consumi, 3) una crescita delle esportazioni nette, ovvero un disavanzo registrato dal resto del mondo nei confronti del paese. Se osserviamo la storia economica degli ultimi 20 anni prima del 2007, è immediato rendersi conto che tutte le politiche maggiormente in voga fra UE ed USA sono state basate sull’aumento della 2) e della 3), e ad un abbattimento della 1).
6. L’esplosione del “populismo” dal 2010 ad oggi è nient’altro che un effetto collaterale dell’implosione di questo schema. Garantire massima stabilità ai governi mentre questi ultimi destabilizzano la sicurezza delle vite della maggioranza delle popolazioni non è più uno schema sostenibile e viene rifiutato in blocco da queste ultime, anche al costo di rifiutare il sostegno ai candidati progressisti (leggasi sconfitta di Hillary Clinton) ed effettuare scelte “irresponsabili” (leggasi Brexit e vittoria del No). Se la cultura progressista fosse ancora in grado di leggere la realtà in maniera scientifica e non ideologica, si renderebbe conto del fatto che la scelta di puntare su una riduzione del grado di democrazia, compiuta negli anni ’80-’90, e non su un suo ampliamento, è stata un errore strategico pagato a carissimo prezzo. Democrazia, infatti, non significa esclusivamente la possibilità di votare i propri candidati: significa anche poter partecipare alla vita sociale tramite uno standard di vita dignitoso, avere la libertà di rifiutare condizioni di lavoro ingiuste, partecipare alla decisione in merito a cosa, quanto e come produrre beni ed erogare servizi. In questo senso, non ci sono governi efficienti che possano salvare la cultura progressista: anzi, questa dovrebbe ragionare sull’idea che sono i governi a dover diventare più “governabili”, più monitorabili e controllati da parte delle popolazione. E che la stabilità è in primis quella fornita da una piena occupazione, una struttura di enti locali funzionanti e competenti, una rete di protezione sociale pubblica efficace e una sinergia positiva fra istruzione ed innovazione.
Gli elementi per capire le ragioni di questo esito referendario, così come del successo dei populismi, ci sono. Basta osservarli.

renzi-boschi