di Domenico Viola
ELEZIONI PRESIDENZIALI USA DEL ’32 E IL PICCOLO PARALLELISMO CON LE IMMINENTI ELEZIONI ITALIANE. QUANDO HAI TROPPI HOOVER E NESSUNA PROPOSTA DI NEW DEAL.
Durante la campagna presidenziale americana per le elezioni del 1932, in piena Grande Depressione, periodo in cui la gente letteralmente moriva di fame, il presidente Hoover parlava di “unicorni ed arcobaleni“, come direbbero da queste parti, ossia del nulla. Hoover, il quale in quattro anni non era riuscito a tirare fuori dall’inferno della depressione il popolo americano, parlava della necessità che business leaders, banchieri, agricoltori e lavoratori ritrovassero “fiducia” nel futuro e che era solo una questione di tempo che alcune delle sue misure portassero i benefici sperati. Il solito “we just need more time“. In aggiunta a questo, Hoover sottolineava la necessità di Balance the budget, pareggiare il bilancio del governo, fare pareggio di bilancio, austerità. Al contrario, durante la stessa campagna elettorale, Roosevelt parlò della sua intenzione e di quella della sua squadra di implementare un New Deal.
Ecco: secondo voi chi è che vinse?
Addirittura, il 18 Febbraio del ’33, durante il periodo del cosiddetto “Interregnum” durato tra il novembre del ’32 e il marzo del ’33, Hoover fece inviare una sua lettera a Roosevelt da un agente dei servizi segreti presso l’Hotel Astor di New York. In questa lettera, tra le varie cose che raccomandò al quasi presidente Roosevelt, ci fu quella di rassicurare il popolo che non vi sarebbe stata inflazione della valuta e che… il bilancio sarebbe stato mantenuto in pareggio!
Ebbene, Roosevelt “se ne sbatté” dei deliri di quest’uomo e implementò il New Deal mediante il quale creò in pochi mesi milioni posti di lavoro. Il New Deal, come afferma il mio professor Randall Wray, rianimò letteralmente gli Stati Uniti e portò un Paese, che durante gli anni della Grande Depressione era messo forse peggio della Grecia di oggi, nel XX secolo. Addirittura di molte delle cose che furono fatte e prodotte durante il New Deal il popolo americano ne ha beneficiato per decenni e ne beneficia ancora oggi. Lo Stato in quegli anni spese in deficit e il settore privato delle famiglie ed imprese si ritrovò sul suo bilancio dei crediti netti o attivi finanziari reali e ebbe a godere di beni reali, altro che debiti!
Bene: immaginate un po’ che ad oggi in Italia abbiamo tanti Hoover che si presentano alle elezioni e che nessuno ha parlato della impellente urgenza e necessità di fare un New Deal 2.0. Ma tutti vi parlano di ridurre il debito pubblico. SHUT THE FUCK UP!
Archivio per mese: Novembre, 2017
La crisi economica è finita ? Alcuni dati.
(di Marco Cavedon, postato il 14/11/2017).
Sovente si sente affermare da parte del governo e dei media che la crisi è finita. Ma sarà vero ?
Possibile che nonostante le politiche di austerity imposteci dall’Europa e applicate diligentemente dalla classe politica dominate le cose effettivamente non vadano poi così male ?
Un’attenta analisi degli stessi dati del governo sembra smentire categoricamente questa ipotesi. Vediamoli insieme.
I seguenti grafici sono presi dal sito DIPE (cioè del Dipartimento per la Programmazione e il Coordinamento della Politica Economica) e dal sito di finanza Trading Economics, che raccoglie ed aggiorna costantemente i dati dei più importanti istituti di statistica di tutte le nazioni.
Il grafico di cui sopra rappresenta il numero totale di persone disoccupate. Come si vede l’andamento è tutt’altro che positivo e dal 2015 praticamente la disoccupazione non scende. Vediamo al contrario che il picco di disoccupazione si ebbe proprio col governo Renzi nel 2014.
Il grafico di cui sopra invece rappresenta la disoccupazione a lungo termine (persone senza lavoro da un anno o più, un dato pertanto ancora più drammatico rispetto il precedente, calcolato su base mensile). Anche qui notiamo che essa cala sensibilmente dopo il 2014, per poi però appiattirsi ad un valore pressoché costante.
Questo grafico e quelli a seguire sono presi invece dal sito del DIPE (dati aggiornati al 05 ottobre 2017). Il dato sopra riportato rappresenta il PIL (il reddito interno) su base trimestrale. Come si vede, siamo ancora ben lontani dai livelli pre-crisi, quado il PIL trimestrale era maggiore di 25 miliardi rispetto ora. Come mai tuttavia questa lieve ripresina dopo il 2014 ? E’ veramente sintomo di creazione di maggiore benessere per la popolazione ? Tenete bene a mente il dato precedente della disoccupazione per capire come a maggiore PIL non corrisponda affatto necessariamente più lavoro e ricchezza per i residenti. In seguito vedremo un’altra cosa molto interessante.
Ma veniamo ora al dato della produzione industriale, che dovrebbe stare particolarmente a cuore agli imprenditori.
Anche qui l’andamento è alquanto deludente; dopo il 2015 si assiste ad una insignificante ripresa, che non è sufficiente per parlare di andamento positivo dato il tonfo realizzato a seguito della crisi economica del 2008 e dopo le misure lacrime e sangue del “salvatore” Mario Monti.
Ora iniziamo ad andare oltre i dati che i media quotidianamente ci presentano per farci credere che tutto vada bene. Un PIL che aumenta non significa che la maggior parte della popolazione sia diventata più benestante, così come una maggiore occupazione non significa che siamo tutti più ricchi perché questo dato non considera i lavori precari, di poche ore e mal retribuiti.
Vediamo infatti nel grafico sopra che la percentuale delle famiglie povere presenta un andamento nettamente ascendente e ciò vale addirittura per il “ricco” nord Italia.
Il grafico di cui sopra invece rappresenta l’andamento della cosiddetta povertà relativa, che si differenzia dalla povertà assoluta in quanto si basa su una soglia di valore di spesa per consumi che varia solo in base al numero dei componenti di un nucleo famigliare e non è differenziata per regione geografica, dimensione del comune di residenza o età dei componenti del nucleo. Anche in questo caso nel tempo si verifica un sostanziale aumento della povertà.
Il grafico sopra invece ci dà il prospetto dell’aumento della povertà per le famiglie numerose (con tre e più figli minori). Della serie, ci viene detto di fare più figli ma non ci vengono date le risorse per farli crescere in condizioni dignitose.
Tirando le somme, da tutti i dati di cui sopra abbiamo visto che l’andamento dell’economia italiana è tutt’altro che roseo come ci viene dipinto. Ma da dove deriva allora la tanto sbandierata ripresa del PIL, che in verità si attesta su valori molto inferiori rispetto a quelli pre-crisi ?
Semplice, non certo dalla domanda interna (che in rapporto al PIL è in diminuzione, vedi qui), causa l’aumento della povertà e la diminuzione degli stipendi (a loro volta dovuti alle politiche di austerity imposteci dall’Europa), ma bensì dalla domanda estera.
Tolta la linfa della domanda interna (causa la riduzione del deficit pubblico), l’unico modo per aumentare il reddito complessivo interno è quello di fare affidamento sulla domanda estera, cosa che l’Italia ha regolarmente fatto a partire dall’inizio degli anni 2010, con un contenimento delle importazioni a favore delle esportazioni, ossia della vendita a basso prezzo all’estero di beni reali dei quali la nostra popolazione non godrà.
Come è stato possibile diventare competitivi nei mercati esteri ?
Semplice; privati della possibilità di svalutare la moneta, ora possiamo solo fare affidamento sull’abbassamento dei salari, cosa che l’Italia ha regolarmente fatto a partire dalla crisi economica del 2008 (vedi sotto).
E quali sono per le piccole e medie imprese italiane e per il nostro sistema bancario le conseguenze di continuare a voler permanere nell’eurozona ed applicare politiche di contenimento della spesa pubblica (che costituisce al centesimo il reddito privato) ?
Anche qui il risultato è palese. Le conseguenze sono state la progressiva diminuzione dei crediti al settore privato, accompagnata dall’aumento dei prestiti divenuti inesigibili (vedi sotto) che hanno causato la crisi del settore bancario di cui oggi sentiamo spesso parlare, non certo dovuta semplicemente a funzionari corrotti e profittatori (questi ahimè ci sono sempre stati), ma al “bel” sistema economico nel quale continuiamo nonostante tutto a voler permanere.
Fonti:
http://www.programmazioneeconomica.gov.it/2017/10/05/andamenti-lungo-periodo-economia-italiana/
di Marco Cavedon fonte http://memmtveneto.altervista.org/articoli/referendum_autonomia.html
Il 22 Ottobre 2017 si sono svolti due referendum consultivi sull’autonomia delle Regioni Veneto e Lombardia, in base quanto previsto dagli articoli 5 e 116 della Costituzione della Repubblica Italiana. La concessione di ulteriori forme di autonomia alle regioni è possibile per alcune competenze dello stato nominate nel comma 2 dell’articolo 117, nonché sulle materie di legislazione concorrente nominate nel comma 3 del medesimo articolo, tra cui rientra anche la voce “coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario”. In particolare questo punto è molto importante dal momento in cui vari movimenti politici lamentano l’alta tassazione a cui sono sottoposte le regioni del nord più ricche economicamente, che versano ogni anno allo stato centrale più di quanto ricevono dallo stesso (il cosiddetto residuo fiscale, vedi qui).
I risultati di tali consultazioni sono stati in entrambi i casi positivi, soprattutto in Veneto dove è stato superato il “quorum” del 50% degli aventi diritto al voto ed i SI’ sono stati quasi unanimi (vedi qui).
In molti tuttavia travisano il significato del termine “autonomia fiscale”, dal momento in cui si ritiene che il denaro venga prodotto grazie alla laboriosità del sistema produttivo privato all’interno di un dato territorio e di conseguenza lo stato si impossessa delle risorse, per spenderle nelle regioni più povere o meno produttive e questo viene generalmente visto come un qualcosa di negativo, una forma di assistenzialismo che alla fine non permette a queste aree di godere di un vero sviluppo.
In questa sede non ci occuperemo di affrontare il problema appena accennato (invero assai complesso e per nulla scontato), ma di chiarire quali sono le reali condizioni per cui si possa parlare di vera autonomia fiscale.
Ebbene, questa ci può essere solo con sovranità monetaria, dal momento che in condizioni normali è lo stato che emette la valuta tramite una banca centrale e non il settore privato. Si travisa quindi da parte di questi movimenti politici che parlano di residuo fiscale e di autonomia il reale significato della moneta, in quanto un vero stato sovrano prima di raccogliere i soldi con le tasse deve necessariamente spenderli, conferendoli al settore privato non governativo di più di quanto tassa per generare il suo attivo e solo questa può essere la via attraverso la quale un governo può far prosperare l’economia di una determinata comunità.
Va tuttavia precisata l’attuale condizione dello stato Italia. Oggi non siamo più sovrani di una nostra moneta e tutti i soldi che il governo centrale spende è costretto a chiederli in elemosina ai mercati dei capitali privati, i soli che possono essere finanziati direttamente dalla Banca Centrale Europea in base al Trattato di Maastricht. Le regole europee impongono altresì restrizioni ai deficit e al debito pubblico, con conseguente diminuzione dell’attivo del settore privato ed alta tassazione che deprime sia le aree povere che quelle ricche del paese.
Ecco che in tale condizione anche un referendum che chiede più autonomia (anche se non dal punto di vista monetario ma delle tasse) può essere utile. Oggi più che mai abbiamo bisogno di un’Italia nuovamente sovrana della sua lira e libera dai trattati europei, con la possibilità di spendere in deficit e di lasciare sul territorio con la spesa pubblica più soldi di quanti ne distrugga con la tassazione. Ricordiamo che uno stato sovrano prima emette la sua moneta e solo dopo tassa e non certo per finanziare la sua spesa, ma per regolare l’economia, abbassando il deficit se la domanda è maggiore della capacità produttiva, innalzandolo se i prodotti non vengono venduti ed aumenta la disoccupazione.
Uno stato sovrano non ha alcuna necessità di tassare a morte le aree ricche del paese per aiutare quelle più povere e ciò può essere anche controproducente, primo perché ribadiamo che le tasse con sovranità monetaria non hanno la reale funzione di finanziare la spesa pubblica, secondo perché questo può far sì che le zone più ricche sviluppino meccanismi basati su politiche di alta competitività con contenimento delle pretese salariali e dei diritti dei lavoratori, realtà molto sentita nel Veneto la cui economia è costituita soprattutto da piccole e microimprese sotto i 10 dipendenti (vedi qui), per le quali mai si sono applicate le tutele dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori.
Bene pertanto in tali condizioni spronare lo stato a stracciare i trattati europei per applicare una maggiore spesa a deficit e tutelare la domanda interna, la componente maggioritaria del PIL di tutti i paesi avanzati e la sola che può far sì che le aziende non si gettino nella gara al massacro della competitività globale, al fine di esportare beni che saranno goduti da altri e non dalla nostra popolazione.