Articolo di MMT Italia pubblicato su “La Voce di Romagna”
Con il referendum costituzionale del 4 dicembre è in gioco ovviamente la forma dell’assetto istituzionale e il rapporto centralista che si vuole instaurare in un paese storicamente legato alle identità locali, tanto da faticare ancora a sentirsi “unito“.
Ma è in gioco soprattutto un’idea politica, che prescinde dalle dimissioni di Renzi e dal governo che dovrà portarci alle prossime elezioni.
Il referendum è l’ultimo tassello di un’onda quarantennale che ha in Italia il suo epicentro iniziale nell’assassinio di Moro e il suo spartiacque nel successivo crollo della Prima Repubblica, nel 1992, coinciso con la decadenza effettiva dei valori costituzionali. 
Quanto accaduto successivamente è un flusso continuo di ideologia neoliberista che ha invaso pervicacemente la nostra società. A livello economico, costruito il falso mito del debito pubblico, che con il Trattato di Maastricht ha trovato nell’euro la saldatura perfetta, i principi fondamentali della Costituzione sono stati sotto-ordinati ai vincoli astratti dell’economia.
L’aiuto ad un disoccupato o un malato ha trovato il muro invalicabile delle formule magiche, condensate nel famoso limite del 3% di deficit annuo. Le buone intenzioni si scontrano sul muro della mancanza di denaro. Il disoccupato resta tale, il malato può crepare.
L’articolo 3 della Costituzione, ad esempio, è stato trasformato in carta straccia proprio per la limitazione artificiale dell’azione pubblica: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
A livello politico la supremazia dell’economia sulla società e sulla politica ha dovuto trovare il suo equivalente nel costante indebolimento del Parlamento, di fatto non più sovrano, al fine di favorire l’azione dei governi chiamati ad essere l’anello finale dell’ordine neoliberista.
Chi voterà Sì, al di là delle discussioni tecniche, permetterà che questo processo dilaghi ancora nonostante in tutto il mondo, in diversi e pur contraddittori modi, la resistenza al neoliberismo si stia ormai affermando.
Chi voterà No, invece, si farà carico di fermare questa deriva e di rimettere al centro della discussione la nostra Costituzione, i suoi diritti fondamentali, sopra il dominio economico.
Questa è la vera sfida in atto. E credo che stavolta, dopo decenni di umiliazioni, gli italiani sapranno indicare la retta via del No.
no

Nel 2013 il governo Letta venne umiliato con la richiesta di una manovra correttiva dello 0,1%, rispetto al deficit previsto nella nota di aggiornamento del Def che stimava il deficit al 3,1%. Così il giovane Enrico, che quando era ancora più giovane scrisse un enfatico saggio intitolato “Morire per Maastricht“, fu costretto a racimolare, con un giochino sull’Imu, 1,6 miliardi necessari a pareggiare i conti secondo quanto previsto dai cervelloni della Commissione Europea.
Per capire quanto quella correzione fosse una umiliazione per un Paese come l’Italia, si pensi che all’epoca, con una disoccupazione oltre il 12% e un prodotto interno lordo ancora negativo, l’unica cosa di cui il nostro paese avesse bisogno sarebbe stata una iniezione di liquidità con una forte manovra fiscale, ovvero meno tasse e più spesa pubblica.
La Commissione Europea chiede al governo italiano altri ridicoli interventi pari ad altri zero virgola del Pil, per portare il deficit dal 2,3% al 2,2%. La cifra in sé è talmente ridicola, oltre che inopportuna (la situazione non è molto cambiata rispetto al governo Letta, a parte la retorica del #cambiaverso di cui il giovin Enrico era parco), da non essere nemmeno giudicabile. Il problema vero del confronto che si va ad aprire con la Commissione, sta nel fatto che Renzi spera di ottenere dalla forzatura delle posizioni di Juncker un consenso spendibile nel referendum del 4 dicembre.
(Il paradosso sta nel fatto che l’idea istituzionale sottostante la modifica di Renzi e Boschi alla Costituzione italiana sta proprio nel conformare il Parlamento italiano al sistema di governance multilivello che opera in Europa: governare senza sovranità, esattamente come è concesso a Juncker, ad esempio, e ai suoi uffici che decidono, tra i 500 milioni di europei, chi debba mangiare e chi no).
La campagna elettorale dunque è un macigno, così come lo sciocco braccio di ferro su una piuma dello 0,1%. Al di sotto, infatti, c’è un magma anti-unionista, dal quale Renzi cerca di pescare (mentre gran parte della base del Pd non lo segue) che fa oramai dell‘Italia il paese politicamente meno gestibile se guardato da Bruxelles e da Francoforte.

Ma cosa dovrebbe fare un governo italiano legittimo, in una situazione in cui gli si chiede di rispettare accordi firmati che, tradotti in politiche concrete, significano strade dissestate, tassazione altissima, taglio dei servizi, disoccupazione, emigrazione, bassa natalità?
Il governo legittimo italiano dovrebbe brandire la Costituzione Italiana (e questo governo, purtroppo, non può), chiedere che la Bce continui a garantire tassi di interesse ai minimi (possibilmente equivalenti a quelli tedeschi), consentire di gestire almeno il 2% di deficit in investimenti pubblici (30 miliardi), quando sarebbero necessarie cifre più alte per un biennio, e in questo modo risollevare un po’ il Paese e ottenere quel consenso in grado di frenare le reazioni che si scatenerebbero Oltralpe.
Questo passaggio, tuttavia, sarebbe podromico ad una destrutturazione dell’Eurozona almeno come la conosciamo oggi: e dovrebbe quindi essere compiuto da un governo in grado di capire che una disobbedienza di questa portata condurrebbe all’apertura di una serie di scenari rispetto ai quali occorrerebbe essere ben preparati.
Non ci sembra davvero il caso del governo Renzi, posto che il Presidente del Consiglio sembra tra i pochi, nel suo entourage, che abbia capito come funziona l’Eurozona (ovviamente Padoan ha ben chiaro il quadro da molto tempo). Dunque è probabile che ci dovremmo accontentare di un braccio di ferro sopra la piuma di uno 0,1%, con, oltretutto, dichiarazioni un poco assurde come quelle dello stesso Renzi, che continua a vantarsi di aver realizzato la manovra con più austerità (ovvero col minor deficit) degli ultimi dieci anni. Contraddizioni che quasi tutta la stampa nazionale, oltre che la politica, non colgono: è molto più importante trascorrere mesi a discutere degli stipendi dei parlamentari.geppetto-e-pinocchio

fonte: http://sienanews.it/in-evidenza/caro-spread-ti-scrivo/
Oggi tutti sanno che il termine spread indica il differenziale tra il rendimento dei titoli di Stato decennali italiani (BTP) e i Bund tedeschi, ritenuti più affidabili. E’ curioso, tuttavia, che prima che la grande banca d’affari americana Lehman Brothers dichiarasse fallimento, lo spread dei titoli di Stato italiani non avesse mai superato i 30-40 punti base. Quel fallimento innescò la corsa, tanto che nel gennaio del 2009 lo spread toccava i 170 punti.
In realtà erano appena iniziati i tempi delle “nuove” crisi; la Grecia, non una banca, ma uno Stato, mostrava fragilità finanziaria. Così montava la preoccupazione del contagio di Italia, Spagna, Irlanda e Portogallo e, di diretta conseguenza, crescevano gli spread dei paesi periferici dell’Eurozona. Per la prima volta si metteva in discussione la tenuta dell’area euro.
Il 9 novembre del 2011 lo spread italiano toccò il massimo record, ancora oggi mai raggiunto, di 574 punti base. Conseguenza: cambio di Governo e riforme lacrime e sangue per noi italiani. Ne seguì, per il caro spread, un andamento altalenante, poi di nuovo il livello sopra i 500 punti – prima dell’intervento di Draghi e i programmi della BCE per sostenere la moneta unica – e, dopo, l’abbassamento, tanto da non sentirne quasi più parlare.
Finché il ministro dell’Economia Padoan, nel corso di un’audizione sulla legge di bilancio davanti alle commissioni Bilancio di Camera e Senato dichiara che lo spread italiano ha invertito la tendenza e che ciò dipende dai timori nel mercato che si interrompi l’azione di politica economica del Governo. Di fatto, dopo mesi di discesa, lo spread italiano in chiusura della scorsa settimana sale e raggiunge 160 punti. Inversione di tendenza? Sono diverse le partite sul piatto: l’aumento del deficit e le risorse necessarie per la manovra finanziaria; le politiche di austerity che non sembrano aver giovato ai dati economici dei paesi interessati e soprattutto il referendum costituzionale.
L’interrogativo ancora in sospeso è questo: come mai il rapporto debito pubblico su Pil nel 2011, anno di massima rilevazione dello spread era al 120,1% e quello previsionale della Commissione UE del 2016 è pari al 132,7%?
La solvibilità del nostro Paese è migliorata anche se il debito pubblico è aumentato? Quella variabile che dovrebbe essere influenzata prevalentemente da dati economici sembra invece essere strettamente legata alla politica. Lo spread italiano diventa un termometro più o meno sensibile rispetto alle necessità politiche da conciliare con le direttive europee. Anche la disoccupazione pari all’8,9% nel 2011 (dato allora più alto dal 2004) è ormai un ricordo nei confronti dell’attuale rilevazione a due cifre (11,7% ultimo mese rilevazione Istat). Ma il ministro dell’Economia valuta “la discesa dello spread in questi 30 mesi come l’apprezzamento, tra le altre cose, per la politica economica”.
Caro spread, chissà se sentiremo ancora parlare di te.
lettera

Articolo pubblicato su La Voce di Romagna sabato 6 novembre
Su un totale di 8092 comuni quelli classificati ad alto e medio rischio sismico sono più di tremila. 
Il piano nazionale per la prevenzione del rischio sismico per gli anni che vanno dal 2010 al 2016 è di 965 milioni di euro: la protezione civile stima che questi fondi probabilmente non coprono nemmeno l’1% del fabbisogno complessivo.
Terremoto 24 agosto, la prima immagine dei crolli ad Arquata fonte twitter
Servirebbero dunque investimenti per 95 miliardi di euro; la spesa pubblica è di circa 800 miliardi, quindi dovremmo tagliarla del 12%.
 
Occorrerebbe un taglio drastico di servizi già ridotti al lumicino o aumentare le tasse.
 Per garantirci che al prossimo terremoto il tetto non ci cada in testa ci sarebbe la terza via, ovvero effettuare questa quota di investimenti aumentando il deficit pubblico di circa 5 punti percentuali, che potremmo spalmare su 5 anni con conseguente aumento del debito pubblico.
Ora mi viene da chiedere per alzata di mano a tutti gli abitanti di questi tremila comuni: 
”Ma voi aumentereste di un punto percentuale all’anno il deficit in modo da garantirvi la vostra incolumità?”
 Che in altre parole è come dire: 
“Temi più le politiche fiscali espansive rispetto ad un sisma 6.5 della scala Richter?”
Qualcuno obietterà: “Così creeremmo nuovo debito che graverà sulle future generazioni?”, ma bisogna scegliere se è meglio lasciare ai figli maggior debito pubblico o un cumulo di macerie.
La proposta MMT inoltre ribadisce che questo “deficit” è fittizio, basti pensare che la Bce sta emettendo 80 miliardi al mese, e con soli 35 giorni potrebbe coprire le esigenze di finanziamento anti-sismico dell’Italia. Basta volerlo.

Si svolgerà il 5 e 6 novembre a Fiuggi un convegno organizzato da “Network per il Socialismo Europeo” www.ricostruire.info, intitolato “C’è un futuro per la Sinistra italiana?
Tra i relatori presenti nella giornata di sabato, per MMT Italia, ci sarà la nostra Chiara Zoccarato, che interverrà nel dibattito “Euro e Unione Europea – La Sinistra al bivio”
Nell’immagine ripresa dalla brochure il programma delle due giornate.euro-e-unione-europea-la-sinistra-al-buio


I PLT sono un elemento strutturale nella proposta MMT. La moneta è un caso di monopolio pubblico; questo significa che lo Stato monopolista della valuta può effettuare tutta la spesa pubblica che vuole. È fondamentale però che questa spesa avvenga nel rispetto dell’interesse principale della collettività: la piena occupazione. Lo Stato monopolista della valuta è in grado di dare un lavoro a tutti i disoccupati. Daniele Basciu spiega le caratteristiche dello strumento che può riportare la civiltà nell’Eurozona: i Piani di Lavoro Transitorio. Non esistono impedimenti tecnici, risolvere la disoccupazione è una scelta politica.