EU_+_Island._Nei_takk!L’Islanda non ha dato nessuna lezione di calcio. E’ una buona squadra che gioca un calcio semplice e abbastanza efficace, ma nulla di così straordinario. Ovviamente nel suo piccolo e dando un’occhiata alla sua storia calcistica, la nazionale islandese ha fatto qualcosa di realmente notevole! L’Islanda piuttosto, ha dato negli ultimi 5-6 anni una lezione al mondo su quale sia l’importanza dello Stato, ossia delle istituzioni costituzionali di diritto, nell’orientare l’economia nazionale su un sentiero di crescita e di sviluppo socialmente inclusivi e condivisi.
L’Islanda ha dato una lezione al mondo intero su cosa sia in grado di fare un complesso di istituzioni governative in seguito ad una crisi bancario-finanziaria. L’Islanda ha dato una lezione al mondo intero su come devono essere trattati dei banchieri criminali. L’Islanda ha dato una radicale dimostrazione di piena sovranità istituzionale, giuridica e territoriale ad un organismo sovra-nazionale come il Fondo Monetario Internazionale.
L’Islanda ha dimostrato che consentire ai propri istituti di credito di sottoscrivere dei contratti denominati in valuta straniera è una pessima scelta politica. L’Islanda ha dimostrato agli europeisti convinti che mantenere il monopolio pubblico di emissione della propria moneta (Corona Islandese) è stata una scelta azzeccata, azzeccatissima per dirla in breve.
L’Islanda infine, ha dimostrato che uno Stato che emette la propria moneta e che decide di lasciar fluttuare il tasso di cambio, trattasi dunque di moneta “FIAT”: 1. Non può mai e poi mai essere costretto al default sui propri contratti di obbligazione emessi; 2. Per poter adempiere alle sue impegnative di pagamento e per poter rimanere operativo non ha bisogno di dipendere dai mercati monetari e dei capitali privati. 3. Non è soggetto ai capricci dei “bond vigilantes” (no rischio di essere vittima di attacchi speculativi sui propri titoli di Stato; e dello spread sì, spread no e dei giudizi delle agenzie di rating se ne può sbattere tranquillamente…… i polpastrelli!).
Infine, sempre questa piccola isola di soli 323.000 abitanti circa, ha dimostrato che proprio grazie al fatto di non aver adottato una moneta straniera come l’euro (e di non aver ratificato, in aggiunta, alcun trattato europeo), ha potuto godere di quel framework di “strumenti macro-economici” di base di cui ciascuno Stato deve disporre per poter pensare di operare nell’Interesse Pubblico del 99% dei suoi cittadini.
L’Islanda ha dimostrato che fuori da un sistema monetario assurdo, ridicolo, disastroso come l’Unione Monetaria Europea c’è vita, eccome se c’è vita (Si prenda visione dei dati macro-economici riportati nell’articolo del nostro professor Bill Mitchell).
L’Islanda ha dimostrato che lo Stato, nonostante l’affermazione in questi ultimi due decenni di quel fenomeno chiamato “globalizzazione”, è sempre in grado di far valere la forza giuridica delle proprie disposizione legislative di fronte alle scelte, ai capricci e alle minacce della finanza globale! L’Islanda ha dimostrato che non vi è alcuna correlazione diretta tra la dimensione del proprio territorio e l’andamento dell’economia domestica.
Ossia, l’equazione da bar dello sport “più uniti = più grandi, più grandi = più forti, più forti = più crescita”, con banali e semplici evidenze empiriche va a farsi fottere. Il tutto, al contrario, dipende in prima istanza dagli arrangiamenti giuridico-istituzionali e quindi monetari e bancari adottati e in seguito, dalle politiche macro-economiche messe in campo.
L’unico vincolo che potrebbe presentarsi e che potrebbe, potrebbe, comportare problemi per un Paese ricade nell’ambito delle risorse reali. Se vi sono, in essere, vincoli di natura finanziaria allora questi dipendono unicamente da idiote scelte politiche. L’Islanda ha dimostrato infine, che adottare politiche fiscali restrittive (leggasi austerità), in seguito ad una crisi finanziaria non solo non è una necessità economica (ma una scelta politica deliberata e criminale), ma è una scelta di politica macro-economica che qualsiasi governo democratico, serio e che ha a cuore la volontà e il benessere dei suoi cittadini non sceglie assolutamente di perseguire. Forza Islanda: batti e continua a battere forte le mani, ma proprio forte, perché di sicuro tu sì che hai vinto.

margherita_di_savoia(1)E’ notizia di qualche giorno fa che la Corte di giustizia Europea si sia espressa in merito alle concessioni balneari delle spiagge italiane, bocciando la proroga automatica decisa dall’Italia per le concessioni demaniali marittime e lacustri previste fino al 31 dicembre 2020.
Un attacco che deriva dai provvedimenti della Direttiva Bolkestein (direttiva 123 del 2006). Secondo la Corte le proroghe delle concessioni non rispettano la suddetta direttiva poiché “il diritto dell’Unione è contrario alla proroga automatica in assenza di gare, in particolare per le strutture con interesse transfrontaliero certo. specificando inoltre che sarebbero i giudici italiani a stabilire la scarsità o meno della risorsa naturale in esame, in base alla quale bisognerebbe selezionare in maniera ferrea i potenziali candidati con gare d’appalto.
La parte più interessante arriva quando si parla della possibilità da parte dei giudici italiani di rigettare le applicazioni derivanti dalla direttiva Bolkestein, perché in caso di interesse Transfrontaliero (avete capito bene, e prestate attenzione al prossimo virgolettato) la proroga automatica “costituisce una disparità di trattamento a danno delle imprese con sede negli altri stati membri e potenzialmente interessate“.
Ergo, vanno organizzate gare d’appalto rivolte anche alla concorrenza europea, il che equivale a dire: dato che le spiagge italiane fanno gola all’estero (così come tutto il nostro patrimonio paesaggistico ed artistico dal valore inestimabile e dai possibili ingenti guadagni) il sistema delle concessioni non può essere esteso solamente ai cittadini italiani che avevano ottenuto una regolare proroga fino al 2020, ma va esteso oltre l’Italia, oltre quei confini che ormai sono sfumati, per essere di appannaggio di tutti, ma proprio tutti, in primis di chi queste meraviglie non le ha.
“Avete vissuto al di sopra delle vostre possibilità”…anche in questo caso? Di cosa siamo colpevoli? Di avere uno dei paesaggi più belli al mondo, un patrimonio paesaggistico da far invidia a tutti, oltre che quello artistico? Siamo davvero colpevoli di questo? L’immagine che ci dovrebbe saltare alla mente è quella di un famelico cane che sbava alla vista di un prelibato bocconcino. E quel prelibato bocconcino sono le nostre bellezze naturali che possono fruttare moltissimo in termini di guadagni. Così la Corte di INgiustizia europea ci dice che siccome siamo così tanto prelibati e gli italiani tutto questo ben di Dio non se lo meritano (non si sa bene chi è a definire questo merito e le nostre mancate virtù, ovvero non si sa da quale pulpito, sicuramente ben peggiore, viene la predica) ci dice che ora ci sono interessi Transfrontalieri che stanno letteralmente sbavando, che sicuramente questi beni se li meritano più e che non è equo che li deteniamo solo noi.

“Maestra! Gli Italiani dicono che il mare della Sardegna è tutto loro!”

Sì, è nostro, perché per ovvi motivi non si può trasferire materialmente. Ma potete venirci in vacanza, cari cittadini Transfrontalieri, il nostro patrimonio è a disposizione del mondo intero, e una volta usciti da questo folle sistema di cambi fissi sarà anche più allettante venire in vacanza in Italia. E forse proprio questa è la fobia. Noi uscendo e riprendendo in mano le chiavi di casa, ovvero la capacità di decidere la nostra politica economica, possiamo farcela e possiamo tornare al posto che occupavamo prima di prendere parte a questa follia della moneta unica e del sistema dei Trattati europei. Abbiamo tutte le carte in regola.

inps_pensioni1
Uno dei tanti (falsi) miti della propaganda dell’attuale establishment politico (alimentato dai media sciocchi e servi del Vero Potere), consiste nel far credere alle persone che esista un problema legato alle risorse disponibili da dedicare a coloro che, raggiunta una certa età, dovrebbero godere del sacrosanto diritto di trascorrere un’anzianità serena grazie ad una retribuzione che consenta loro di accedere ai beni essenziali per una vita dignitosa.
La polemica di recente è stata accentuata dalla famosa notizia delle buste arancioni che l’INPS sta inviando a 150.000 lavoratori con indicata la data prevista di pensionamento e il valore del primo assegno di pensione.
Ciò che dovrebbe essere un diritto naturale sembra che oggi non lo sia più.
Le motivazioni che vengono addotte si possono distinguere sostanzialmente in due categorie: la mancanza di risorse fisiche (forza lavoro) e, soprattutto, di risorse finanziarie (di soldi) disponibili per garantire agli anziani un’esistenza dignitosa.
Per quanto riguarda il primo aspetto, direi che qualsiasi persona di buon senso può fin da subito stendere un velo pietoso sull’assurdità di tale assunzione, in base alla quale il vero problema di oggigiorno sarebbe che ci sono troppi anziani e troppo poche persone giovani che, con il loro lavoro, possano sostenere tramite il versamento dei contributi dedotti dalla busta paga le casse degli enti previdenziali. Una semplice analisi basata sui numeri degli stessi enti governativi che sottolineano tale “problema” può facilmente smontare questo assunto e infatti basta guardare al dato della disoccupazione totale (11,4%) e della disoccupazione giovanile (36,7%) per rendersi conto che il problema non è affatto la mancanza della forza lavoro, ma il fatto che questa forza lavoro, per seguire la stessa ideologia politica che lascia i nostri anziani senza pensione (e cioè la presunta necessità dell’abbattimento del “debito pubblico”), si preferisca lasciarla inattiva piuttosto che assumerla in attività utili per la collettività (e non si parla solo della produzione di beni materiali, anzi).
Per affrontare il secondo problema (quello finanziario), comunque legato al primo nella retorica dei nostri media e dei nostri politici, è utile fare una piccola digressione sull’evoluzione del sistema pensionistico nel nostro paese.Il vero spartiacque si ebbe nel 1995 con la riforma delle pensioni del governo Dini (Legge 335 del 1995): con essa si passò dal sistema retributivo al cosiddetto sistema contributivo.
Nel sistema retributivo la pensione corrisponde a una percentuale dello stipendio del lavoratore: essa dipende dall’anzianità contributiva e dalle retribuzioni, in particolare quelle percepite nell’ultimo periodo della vita lavorativa, che tendenzialmente sono le più favorevoli.
Nel sistema contributivo, invece, l’importo della pensione dipende dall’ammontare dei contributi versati dal lavoratore nell’arco della vita lavorativa. Il passaggio dall’uno all’altro sistema di calcolo è avvenuto in modo graduale, distinguendo i lavoratori in base all’anzianità contributiva.
Da questo momento in poi si ebbe quindi una vera e propria “rivoluzione” nel concetto di pensione, che da diritto fondamentale della persona diventò un qualcosa da legare indissolubilmente all’andamento economico e alla “disponibilità di risorse” di un determinato momento storico.
Le riforme successive non fecero altro che acuire questo concetto, favorendo i fondi pensione privati (D.lgs 47 del 2000) ed innalzando gradualmente l’età pensionistica. Già la legge 102 del 2009 stabilì a partire dal 2010 l’aumento progressivo dell’età di pensionamento per le lavoratrici del pubblico impiego fino a 65 anni, nonché dal primo gennaio 2015 l’adeguamento dei requisiti anagrafici collegato all’incremento della speranza di vita calcolato dall’ISTAT e validato dall’EUROSTAT.
Lo smantellamento definitivo dei diritti dei lavoratori prossimi all’anzianità si ebbe con la cosiddetta Riforma Fornero (articolo 24 del Decreto Legge “Salva Italia” n. 201del 06/12/2011).
I punti essenziali di questa sciagurata legge sono i seguenti:
-) imposizione del sistema contributivo a tutti i lavoratori, anche a coloro che, in ragione della riforma Dini del 1995, stavano costruendo la propria pensione col più generoso sistema retributivo;
-) innalzamento dell’età pensionistica (pensione di vecchiaia) a 66 anni anche per tutte le donne lavoratrici a partire dal 2018 (67 anni per tutti a partire dal 2021);
-) per ottenere la “pensione anticipata” (cioè prima di raggiungere i limiti di età anagrafica sopra esposti, comunque soggetti a variazioni in base alle stime sull’aspettativa di vita) bisogna aver lavorato minimo 41 anni e 3 mesi per le donne e 42 anni e 3 mesi per gli uomini;
-) Taglio per il 2012 e il 2013 delle rivalutazioni delle prestazioni pensionistiche (in base all’inflazione) che superano tre volte il trattamento minimo (comma 25 dell’articolo 24, poi bocciato dalla Corte Costituzionale) e incorporazione di Inpdap e Enpals presso l’Inps.
La riforma Fornero è anche tristemente nota per aver causato il fenomeno degli “esodati”, ossia, i lavoratori che avevano sottoscritto accordi aziendali o di categoria che prevedevano il pensionamento di vecchiaia anticipato rispetto ai requisiti richiesti in precedenza. Complice l’innalzamento dell’età del pensionamento costoro sono rimasti senza più stipendio e senza ancora pensione, per alcuni periodi di tempo. Un caso che ha riguardato diverse decine di migliaia di persone, per le quali è intervenuto successivamente l’Esecutivo per garantir loro uno “scivolo” per questa fase di passaggio.
Ed eccoci finalmente giunti al panorama attuale nel quale, nonostante si continui a descrivere la spesa pubblica (anche per la tutela delle pensioni dopo 66 anni di età) come un qualcosa di eccessivo e da abbattere sempre di più nel nome della “responsabilità fiscale”, abbiamo la stessa Inps che afferma che il 64,3% delle pensioni ha un importo inferiore a 750 euro.
Vediamo ancora una volta come ciò che la propaganda politica e mediatica attuale vuole far apparire come buon senso e responsabilità (il buon stato padre di famiglia che gestisce in maniera sempre parsimoniosa le sue risorse spendendo meno di quello che incassa) sia in verità l’ennesima grande menzogna creata ad hoc per impaurire le persone e moderare le loro pretese anche quando si parla di diritti imprescindibili dell’uomo, come quello di godere di un’anzianità serena in questo caso e il tutto nel nome del profitto della grande finanza privata (nella fattispecie soprattutto i fondi pensione) che è colei che ha maggior interesse a ridurre all’osso il ruolo dello stato nel tutelare il bene della cittadinanza. D’altronde, lo stesso ministro Elsa Fornero al World Pension Summit del 2012 ammise ciò.
Anche ponendoci nell’ottica mainstream seconda la quale le spese degli enti previdenziali devono essere gestite secondo il principio del non gravare eccessivamente sul debito pubblico, dai dati dello stesso DEF (Documento di Economica e Finanza) del 2016 del governo vediamo che le cose non stanno affatto così. Nella tabella 3.9 a pagina 62 troviamo infatti il dato del debito delle pubbliche amministrazioni, dal quale è possibile vedere nello specifico che il debito degli enti di previdenza e di assistenza rappresenta appena 117 milioni di euro (dati 2015) su un totale di 2.136 miliardi (cioè lo 0,005% del totale).previdenzaMa per sconfessare le logiche imperanti che giustificano la diminuzione dei diritti sociali (anche quelli più importanti) nel modo più autorevole ed inattaccabile, bisogna porsi in un’ottica completamente diversa da quella mainstream e rovesciare  l’intera scala dei (falsi) valori sui quali essa poggia.
Come abbiamo ormai da anni ribadito svariate volte, il debito pubblico in verità non è mai un problema per uno stato sovrano che può emettere la sua valuta (e ahimè oggi non lo siamo più), anzi, rappresenta la ricchezza al netto del settore privato derivante da una spesa pubblica maggiore delle tasse, ricchezza che può venire accumulata sottoforma di riserve (denaro) o sottoforma di titoli, ma in ogni caso rappresenta un attivo e mai questo stato avrà problemi nell’”onorare il suo debito”.
Per uno stato sovrano non esiste alcun limite finanziario, esso non è mai vincolato dalle entrate, anzi, prima di riscattare il denaro che lui solo e per primo può emettere al netto, deve prima spenderlo affinché possa essere conferito al settore privato che lo può utilizzare. E la stessa cosa vale per le entrate degli enti previdenziali che in ultima analisi, al netto delle costrizioni istituzionali autoimposte, mai servono per finanziare le pensioni e l’assistenza, in quanto il loro bilancio è a tutti gli effetti ascritto a quello delle amministrazioni pubbliche di uno stato. Quando uno stato raccoglie il denaro con le tasse non fa altro che diminuire dei “meno” che esso possiede sui suoi conti; mai però in aggregato potrà arrivare ad avere degli attivi da poter spendere, in quanto un azzeramento del debito pubblico coinciderebbe necessariamente con un azzeramento dell’attivo del settore privato o, peggio ad un indebitamento del settore privato nei confronti del governo in caso di “credito pubblico”.
Solo ora che di fatto lo stato italiano assieme a molti altri utilizza una moneta straniera (l’euro) che non può emettere il debito pubblico (e di conseguenza anche tutti i debiti dei singoli settori delle amministrazioni pubbliche) è veramente un problema, in quanto tutti i soldi che il governo spende ed immette al netto nell’economia devono necessariamente derivare da un indebitamento nei confronti dei mercati finanziari privati (a loro volta finanziati dalla Banca Centrale Europea, la sola entità che può creare l’euro, ma che non può conferirlo agli stati).
Ecco quindi smontata con una “semplice” ma quanto mai realistica ed efficace osservazione tutte le false paure che ruotano attorno al tema delle pensioni, nel nome delle quali ci siamo ormai assuefatti ad un modello economico e politico che impone sofferenze inenarrabili alla popolazione, nel nome del profitto dei mercati finanziari globali.
Poi è assolutamente vero che uno stato può costruire una cornice di regole e di cavilli istituzionali che gli impediscono di spendere a deficit senza problemi per tutelare il benessere economico e sociale della sua popolazione, ma alla fine questo è esclusivamente un problema politico e mai economico, in quanto le operazioni delle banche centrali e il sistema bancario dipendono sempre dalle leggi dello stato.
Sta ora a tutti voi lavoratori, imprenditori e pensionati capire queste realtà, informarvi su tutte queste cose che incessantemente ormai da tempo andiamo a diffondere e costringere il governo ad applicare una buona macroeconomia al servizio del 99% della popolazione e non dell’1% dei mercati dei capitali privati, stracciando senza perdere ulteriore tempo dei trattati internazionali che ci impongono questa aberrazione.
Ma fintantoché prevarrà la logica egoistica che vuole ingabbiare le potenzialità dello stato sovrano, perché alla fine se tutti devono spendere in modo parsimonioso badando ad aver dei bilanci in attivo, altrettanto deve fare il governo sennò è sprecone, corrotto e ladro, allora mai riusciremo a reagire nell’unico modo efficace a questa realtà che sta distruggendo la libertà e la dignità delle nostre vite.

Nel video allegato proponiamo l’intero ricco confronto che si è tenuto lo scorso 20 giugno presso la Città dell’Altra Economia, a Roma, per il convegno “Mmt e la nuova Resistenza” che ha visto la partecipazione, come relatori, di Alfonso Gianni per il Comitato per il No alla modifica costituzionale, del professor Sergio Cesaratto, del professor Stefano Sylos Labini, dell’onorevole Alfredo D’Attorre (Sinistra Italiana) e di Antonio Maria Rinaldi (Alternativa per l’Italia).

 
 

da Trentino MMT.
A quanto pare, la notizia che tra gli under 35 britannici abbia vinto l’astensionismo non sembra essere passata ai riflettori quanto il dato di comodo dell’affermazione del voto per il Remain nella stessa fascia di età (parliamo di un 63% di astensione per gli under 35 mentre tra over 65 si attesta al 17%).
L’aspetto interessante di tale faccenda è però l’indignazione nei social network, concretizzatasi in una miriade di commenti indignati dei loro coetanei “paneuropei” che vi hanno letto la conferma dell’egoismo delle “vecchie” generazioni a loro scapito. Che il cuore dei giovani europei palpitasse con tale passione per una zona di libero scambio come la UE, di primo acchito mi ha lasciato piuttosto perplesso, perché mi sembrava una passione degna più di Cavour e gente simile che dei freschi virgulti continentali.
brexit1-410x218Quando, però, ho verificato che tale dato, con annessa indignazione, era una delle “notizie” più battute dai media (cartacei, televisivi e digitali), la perplessità ha lasciato spazio alla mia di indignazione. L’aspetto su cui i mezzi di informazione hanno puntato è stato quello di costruire ad arte il mito di un conflitto generazionale, in cui i vecchi brutti-sporchi-cattivi hanno succhiato il midollo del giardino dell’Eden, vivendo al di sopra delle proprie possibilità e lasciando ai poveri ragazzi solo le briciole e tanta disperazione. Ecco, allora, disegnato l’identikit del cinquantanovenne in pensione (di già? bastardo!), che dopo quarantatré anni di lavoro, vissuti come un nababbo, ha lasciato un debito pubblico che i suoi figli e nipoti, degni epigoni della piccola fiammiferaia, dovranno pagare a suon di lavoro precario, abbassamento salariale con rispettivo aumento del carico lavorativo (dove presente), eliminazione di un’organica tutela sanitaria, assenza di contribuzione pensionistica, e via discorrendo. Ergo, sembrano invitare i soloni dell’informazione continentale, lottate – o giovani – contro i vostri padri e nonni, affamatori e arraffatori.
Non farebbe una piega, se fosse vero. Peccato che sia totalmente falso. Ripeto: falso. Il debito pubblico (la grande colpa) non scatena assolutamente le iatture elencate in precedenza. Non lo può fare se lo Stato è sovrano, ovvero se è monopolista della propria moneta. Le generazioni “cicala” non sono state affatto tali e accusarle di essere la causa della vera distruzione di prospettive e salvaguardia delle giovani generazioni è criminale, perché scatena un odio ingiustificato fondato su asserzioni false. Se le “vecchie” generazioni avessero vissuto nell’austerità, nel pareggio di bilancio e nel rigore finanziario professati dagli euroliberisti – di destra e di sinistra – non avrebbero lasciato un paradiso ai propri eredi. Anzi, avrebbero lasciato un inferno peggiore dell’attuale.
Dunque: lo scontro generazionale è una bufala. Peggio, è uno squallido strumento di distrazione, degno della più bieca propaganda di regime. Serve solo a creare un capro espiatorio per deviare la rabbia di chi – realmente – viene privato giorno dopo giorno del proprio futuro.
brexit2Se i giovani europei non vogliono accettare di vivere sotto ricatto, disoccupati o precari, senza le più elementari basi della civiltà occidentale, hanno una sacrosanta ragione a cercare i responsabili di questo crimine. E usare tutta l’energia in loro possesso per chiedere giustizia. Ma, prima, si affranchino dai megafoni del consenso facile. E individuino le caratteristiche anticostituzionali ed economiche su cui si fondano i Trattati europei. Magari scopriranno che di “remain in EU” non hanno più voglia nemmeno loro.
(Mattia Maistri – Trentino MMT)

Sabato 9 luglio è venuto a mancare Leonardo Malizia uno dei primi attivisti e compagno del gruppo territoriale Umbria.
Leo non era un semplice attivista (se è lecito utilizzare l’aggettivo “semplice” per definire qualsiasi persona che dedica parte della sua vita ad immaginare un progresso per la propria comunità): proprietario della libreria “Dillinger” che ha ospitato le riunioni del nostro gruppo sin dal momento in cui si è costituito.
Per anni, caro Leo, ci siamo ritrovati da te ogni settimana per studiare economia e dibattere su come immaginare una società migliore; infinite riflessioni sul modo in cui si poteva contribuire attivamente alla realizzazione di un’ idea di equità, che trascendesse dalla semplice “redistribuzione” , ma che arrivasse ad ipotizzare la “creazione” di maggior benessere, maggior felicità, maggior libertà; un’IDEA che permettesse di emanciparsi da una vita schiavizzata dalle angosce che il nuovo secolo ci fa piombare addosso sotto forma di austerità e perenne stato di emergenza.
Una libreria indipendente nell’epicentro del conformismo mondiale (Assisi), aperta durante la “Global financial crisis”.
L’austerità ti toglie il tempo, te lo succhia via come un vampiro. Quanti del 40% dei giovani disoccupati italiani ha ancora la forza per leggere e per informarsi?
Ricordiamo Marx gli avvertimenti di Marx:
“L’ignoranza è la madre dell’industria come della superstizione, la riflessione e l’immaginazione possono incorrere in errori; ma l’abitudine di muovere la mano o il piede in una data maniera non dipende né dall’una né dall’altra di esse. Per questo le manifatture van più a gonfie vele laddove si adopera di meno il cervello, cosicché si può considerare l’officina alla guida d’una macchina che abbia uomini per parti.”
L’austerità miete centri culturali e posti di aggregazione sociale con una violenza imperdonabile e di certo non risparmia le librerie indipendenti.
La Dillinger infatti non ha resistito e da ormai due anni aveva chiuso anche lei “per crisi” ma nelle nostre menti rimarrà sempre nitido il ricordo del luogo da cui è iniziato il nostro percorso.
Tu Leo sei il primo degli attivisti e noi continueremo con il nostro impegno a fare tesoro di ogni tua riflessione. E se un giorno riavremo anche una sede la chiameremo “Dillinger” così da ricordarci gli innumerevoli ed indescrivibili momenti passati insieme.
Resterai sempre tra noi splendida Rockstar!

Nel video il servizio realizzato da On Air sull’incontro svoltosi a Fermignano (provincia di Pesaro-Urbino) il 18 giugno 2016, dove oltre al presidente di Memmt Marche Tiziano Tanari, erano presenti come relatori anche l’avvocato Marco Mori di Alternativa per l’Italia, e l’avvocato Giuseppe Palma.
I relatori hanno illustrato l’incompatibilità tra trattati europei e la Costituzione italiana, oltre a descrivere tutti gli aspetti di criticità della riforma costituzionale.
Nel servizio tutte le interviste.
Buona visione.

 
 

Cercherò di noerasmus1n essere troppo professionale. La situazione lo richiede, ed ho deciso di scrivere in prima persona. Da ventenne sono rimasta sinceramente sconcertata da certe dichiarazioni post-Brexit. Perché tengo a specificare la mia età? Perché queste dichiarazioni sono state pronunciate in larga maggioranza proprio da miei coetanei oltre che da coloro che speravano nella vittoria del “remain”. Affermazioni del tipo “La scelte lasciate in mano al popolo sono rischiose e pericolose”, “I vecchi non dovrebbero decidere”, “Oddio e ora come facciamo con l’Erasmus?”. Allora mi sono posta delle domande. Come mai la mia generazione, nata con il naturale diritto all’istruzione, ed in possesso di uno dei più potenti e completi mezzi di informazione quale Internet, non riesce dati questi presupposti a comprendere che il momento per liberarsi è arrivato?
Che sono talmente schiavi da non poter più nemmeno sperare di avere un lavoro degno delle proprie aspettative in Italia e che per questo sono costretti ad andarsene spesso per lavare i piatti all’estero guadagnando due spiccioli? Cosa li rende così tanto conformisti da non riuscire a vedere le sbarre di ferro della gabbia che li circonda, e che addirittura fa loro credere che l’andarsene, il fuggire, il mandare a quel paese la propria patria, i propri genitori, i coetanei che rimangono e i propri concittadini sia la vera libertà?
Da questo punto di vista mi verrebbe seriamente da pensare che è fatta, che il neoliberismo non essendo solo un concetto economico ma anche ideologico ha vinto.
Ho cercato di dare una risposta a queste domande e confrontandomi con persone di altre generazioni ho trovato una chiave di lettura ad una situazione che a volte mi sembra quasi impossibile da decifrare e comprendere. Le passate generazioni hanno vissuto altre epoche, altre economie, altri stili di vita. Molti di loro sono tuttavia conformi a quello che vige ora e sono convinti che la concorrenza, il libero mercato nobilitino la nostra nazione, pur distruggendola. Ma posso assicurare che molti altri hanno capito, e facendo un confronto con altre epoche da loro vissute (anni ’80 per esempio) vedono l’abissale differenza con l’oggi.
Mentre per quelle generazioni, trovare un lavoro degnamente retribuito e mantenersi era una cosa naturale, semplice anche per chi non aveva fatto l’Università (cosa del tutto legittima che non definisce affatto l’ignoranza o meno della persona, come oggi vorrebbero farci credere alla luce della votazione inglese), per i loro figli adesso il futuro si è ribaltato: spesso sono sottopagati, stanno per essere licenziati e se già non lo sono, sono precari. E per i loro nipoti ancora peggio. Uno scenario che non voglio nemmeno provare a descrivere.
E’ questa (quella dei figli e dei nipoti), la generazione del blackout mentale, la mia generazione. Noi non abbiamo vissuto gli anni della vera prosperità, della crescita, non li abbiamo visti, ne abbiamo solo sentito parlare. Non abbiamo visto l’alternativa, non sappiamo cosa c’è al di fuori della gabbia dell’UE, o meglio per usare una metafora acculturata (così da rendere comprensibile il concetto anche ai “semicolti”, tifosi dell’Erasmus e del sistema economico che sta distruggendo il loro futuro) non sappiamo e non riusciamo ad immaginare cosa può esserci al di fuori della caverna, quella del mito di Platone, incatenati come siamo, nella vana ammirazione di un sogno europeo che non esiste, né mai è esistito.
Spesso mi viene naturale deludermi e arrabbiarmi contro la generazione a cui appartengo. Poiché è vero che non abbiamo visto un mondo diverso con modelli economici, politici e sociali differenti, ed è vero anche che siamo stati rimbecilliti (passatemi il termine) fin dalla nascita dalla retorica del “quanto è bella l’Europa dei popoli” presente non solo in televisione ma anche in tutti i libri scolastici dall’infanzia fino alle superiori, per non parlare di quelli accademici e delle lezioni in facoltà, dove gli anni di politiche economiche criminali come quelle della Thatcher e di Reagan vengono osannati e dove il massimo dei personaggi invitati a convegni e seminari sono “artisti” come Albano, vecchi politici vicini al governo in carica o, peggio ancora, grandi manager di gruppi finanziari internazionali.
Ma per me non è ammissibile. Non posso arrendermi al fatto che i miei coetanei non siano abbastanza in gamba o coraggiosi da togliersi la benda che hanno sugli occhi, da uscire dalla caverna. Che dicano che la democrazia è pericolosa, quando è la più grande conquista dei loro nonni, che dovrebbero ringraziare ogni giorno e non insultare solo perché sono “vecchi” e hanno deciso diversamente rispetto ai giovani della generazione Erasmus.
Perciò voglio fare un appello, un invito: ragazzi non arrendetevi ed informatevi, studiate il più possibile. Vi daranno dei pazzi, dicendovi che è un’utopia, perché un’alternativa non c’è e dovete adattarvi, come al campeggio. Io però preferirei vivere in una casa solida piuttosto che in una precaria tenda. Ed avere un lavoro che rispetti le mie aspettative, lavorative e retributive, lasciandomi anche la possibilità di rimanere nel paese che amo, il paese più bello del mondo. Spetta solo a noi riscattarlo, riscattare la sovranità, il potere di decidere in casa nostra. Il peggio che ci prospettano in caso di uscita dall’UE sta già accadendo nel mentre in cui restiamo.
Beppe Severgnini (e qui concludo) a La7 ha affermato che “L’Europa ha migliorato le nostre vite, tipo viaggi, trasporti e roaming“…dunque basta il miglioramento di viaggi, trasporti e roaming per convincere i giovani a rinunciare ad un lavoro, al mantenersi da soli, ad una pensione, alla libertà?
Ragazzi, studiamo e liberiamoci.

Gli accadimenti successivi alla crisi finanziaria del 2008 hanno dimostrato due verità inconfutabili:
1) Non ci sono limiti fisici all’emissione di valuta (trilioni di yen, dollari, euro, sterline, rubli, yuan sono stati creati per salvare il sistema bancario dalla crisi finanziaria)
2) Le istituzioni che hanno il potere di emettere le valute, cioè le banche centrali, sono i soggetti in assoluto più potenti al mondo e, VOLENDO, possono risolvere qualsiasi crisi di natura finanziaria colpisca il sistema economico.
Fino a due o tre decenni fa, tali istituzioni (le banche centrali) sottostavano al potere dei governi/parlamenti.
Negli ultimi decenni sono cambiati gli assetti istituzionali: da un lato abbiamo paesi che ancora mantengono una qualche forma di controllo del potere politico sulla propria Banca Centrale (Usa, Uk, Giappone, Russia, Cina); dall’altra abbiamo una Unione di Stati (Eurozona) che ha rinunciato a questa forma di controllo creando una Banca Centrale (la BCE) totalmente indipendente dall’influenza dei governi.
Risultato di questo esperimento è che la BCE:
– Non può finanziare la spesa pubblica dei governi attraverso l’emissione di valuta (euro)
– Non garantisce il debito pubblico dei governi (debito denominato in euro)
– Non può in alcun modo essere influenzata/obbligata dai governi nelle sue decisioni
Quindi nell’Europa della fratellanza e della solidarietà, nell’Europa dei diritti, del welfare, delle democrazie evolute, delle Costituzioni più belle al mondo, ci troviamo oggi in una situazione in cui l’istituzione può potente che abbiamo, cioè la BCE che ha il potere di emettere euro, sfugge totalmente al controllo politico/democratico.
Tale istituzione è posizionata sopra i governi/parlamenti democraticamente eletti e per questo motivo è indipendente da essi; contemporaneamente è fortemente dipendente dagli interessi bancari/finanziari.
Il risultato di questo cambiamento avvenuto negli ultimi decenni è che:
– da un lato, i paesi che hanno mantenuto una qualche forma di controllo politico sulla propria Banca Centrale, pur avendo assecondato le esigenze della grande finanza, sperimentano oggi tassi di disoccupazione intorno al 5%;
– dall’altro, l’Eurozona, che ha abdicato a questo controllo, sperimenta una disoccupazione intorno all’11% e contestualmente i profitti delle multinazionali e della grande finanza sono esplosi.
Strano? No, se si analizza la questione in questi termini.
Quanto ci metteranno i nostri eroi a capire che questo modello istituzionale è folle?
Quanto ci metteranno i nostri eroi a capire che l’integrazione tra i popoli europei NON può passare per la moneta unica, il mercato unico deregolamentato, l’unione degli interessi del grande capitale e della grande finanza?
Quanto ci metteranno i nostri eroi a comprendere che questo modello istituzionale è la strada più breve per riportare l’odio tra gli Stati e la guerra in Europa?
In estrema sintesi condivido l’opinione di chi afferma quanto segue: “Ti raccontano che ci sia una crisi. Ma quale crisi! Non siamo in crisi: è solo un cambiamento deliberato e pianificato di sistema economico”.

Quante volte ci Sentiamo dire questa frasetta ben confezionata da svariate fazioni politiche? È la tipica formula giustificatrice del disastro europeo. “Era partita bene, un sogno, un’unione di tutti i popoli”.
Ma siamo sicuri di questo? Forse dovremmo fare un salto indietro nel tempo, indagando sulle origini anche ideologiche che stanno dietro alla creazione di questa unione.
In questa indagine ci soccorre un libro oserei dire illuminante riguardo la sua storia ed il suo concepimento: “L’Unione Monetaria Europea. Storia segreta di una tragedia.” di Alain Parguez. L’autore, economista francese tra gli ideatori della Teoria del Circuitismo, individua in questo testo quattro fasi, ripercorrendo le quali è possibile trovare le radici che hanno condotto alla moneta euro. Le ripercorreremo brevemente cercando di essere esaustivi:
FASE 1
La prima fase, la più teorica, che si colloca nel primo dopoguerra, fa riferimento al gruppo dei “Tradizionalisti”: un gruppo di intellettuali tecnocrati che auspicavano la restaurazione di un’antica tradizione ispirata al Sacro Romano Impero Tedesco. Essi proponevano due regole basilari: il predominio di Francia e Germania, considerati i veri eredi dell’antica tradizione, su tutti gli altri paesi europei, rigettando la Repubblica Francese ed infine il predominio delle classi elitarie sulla massa popolare, trovando tuttavia difficoltà nel conciliare questa ideologia neo feudale con i tempi moderni.
FASE 2
La soluzione era a portata di lobby. Il Comitato Forges e il Gruppo de Wendel legati alla Banque de France. Grazie a queste grandi lobbies fu possibile la creazione e la progettazione nel concreto dell’Unione Monetaria Europea al fine di integrare le due economie francese e tedesca. Ciò ad opera di due personaggi chiave (Schumann, deputato di Mosella, lobby dell’industria pesante e Monnet, banchiere) che videro e furono artefici dei primi organi europei quali Consiglio d’Europa, CECA e Nato. Dunque entro il 1951, anno del piano Shumann, abbiamo una Comunità Europea cucita su misura del Gruppo de Wendel e del Comitato Forges, ideata da tecnocrati, giustificati dal mantra del libero mercato. Dalle menti di Perroux e Rueff arriva invece la BCE, una banca indipendente con poteri assoluti sull’emissione di valuta, la quale avrebbe mantenuto l’inflazione pari a zero nell’Unione Monetaria. Perroux propose regole dittatoriali, poi inserite nel Trattato di Maastricht: gli Stati Membri non possono battere moneta (ovvero non possono attuare la sovranità nazionale appieno), non possono gestire il proprio deficit, in presenza di crisi, possono reagire solamente con politiche deflattive, infine, gli Stati devono essere proni alle esigenze di mercato, flessibili. Possiamo quindi congiungerci alla fase 1; vi ricordate il Sacro Romano Impero? La BCE assume tutti i poteri medievali dell’impero. Alain Parguez riflette su questo “ritorno al passato” definendo il divieto di battere moneta la condicio sine qua non per la distruzione dello “Stato moderno”. Togliere allo stato il potere di scegliere e decidere sia materialmente che politicamente quali politiche economiche adottare significa ridurlo alla sola forma senza una sostanza effettiva. Non solo, ciò fa sì che vengano eliminati quelli che Perroux chiamava con tono dispregiativo “falsi diritti” ovvero quelli del welfare (sanità,istruzione, ecc.), emblematici ad esempio della politica espansiva del New Deal. In breve: la BCE è l’imperatore con poteri assoluti, gli Stati che aderiscono all’Unione Monetaria sono i suoi vassalli.
FASE 3
Arriviamo così agli anni ’80 con un obbiettivo nel quadro della costituzione dell’Unione, quello di trasferire quest’idea sorta negli ambienti della destra tradizionalista che dopo le guerre aveva perso credibilità, alla sinistra. A riuscire nell’impresa fu un gruppo di economisti e tecnocrati (come sempre) francesi, che possono essere rappresentati da colui che nell’81 divenne il Presidente della Francia: François Mitterrand. I neo-socialisti francesi pertanto fecero da apripista evidenziando la necessità inevitabile della “cultura del sacrificio” derivante dall’idea che la spesa pubblica favorisse i “falsi diritti” previsti dal welfare state di cui abbiamo parlato poc’anzi. Ecco trovato il ponte tra i primi tradizionalisti di destra e i nuovi socialisti europei.
FASE 4
Il non aver saputo imporre una severa politica economica con Attali, accusato di essere keynesiano (mentre non lo era, così come Mitterrand) fece in modo di spingere la socialdemocrazia tedesca e i socialisti francesi ad aderire al programma conservatore. Dopo la politica deflattiva di Barre, venne attuato quindi il Piano di reflazione di Mitterrand, che avrebbe portato ad una fase di ripresa, come espediente per essere accettato con serenità dall’opinone pubblica, messo in confronto con la già citata politica deflattiva di Barre. Tuttavia questa terapia d’urto non era necessaria poiché il deficit era del tutto sostenibile. Non solo, alla sopravvalutazione della moneta francese (del 20/25%) in seguito alla scarsità di spesa di Barre, venne aggiunto il cambio fisso con il Marco Tedesco ed il Dollaro. Dopo una grande e duratura operazione di propaganda, l’opinione pubblica si era ormai convinta che non vi fossero alternative alla necessità del sacrificio. Parguez smaschera l’accusa rivolta alla Germania di aver architettato il nuovo ordine europeo; secondo l’autore infatti Mitterrand avrebbe ricattato la Germania promettendole la riunificazione tedesca in cambio dell’accettazione sia della moneta unica che della BCE. La stesura finale del Trattato di Maastricht è infatti ad opera degli economisti francesi tra cui Aglietta. Stesso retroscena anche per il patto di stabilità e il Trattato di Amsterdam.
L’Unione Monetaria era ormai cosa fatta. La democrazia dei singoli stati era diventata il suo pericolo principale, abbattuta tuttavia dagli organi indipendenti, sovranazionali e vincolanti quali il Consiglio d’Europa e la Commissione. Parguez lo definisce un sistema feudal-capitalistico, una commistione cioè tra tradizionalismo di stampo imperialistico supportato da grandi lobbies industriali e una parvenza di modernità, adducendo un emblematico paragone tra la firma del Trattato di Maasticht e l’incoronazione di Carlo Magno. 
Eccolo il principio dell’Unione Monetaria. Era partita con le migliori intenzioni? Se per migliori intenzioni si intendono gli interessi economici dei gruppi industriali franco-tedeschi possiamo essere d’accordo. Altrimenti abbiamo capito come essa sia nata con cattive intenzioni, o meglio, a beneficio di pochi. Ora non cadiamo più nella trappola del “era partita bene ma recentemente ha preso una brutta piega”, la piega è sempre stata la stessa, solo che adesso è molto più evidente poiché nuoce purtroppo ad una fetta esageratamente larga di popolazione.