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Di Cristian Dalenz Buscemi qui l’originale
Si è svolta domenica 30 settembre alla Sala del Carroccio del Campidoglio di Roma la presentazione del nuovo libro scritto dal giornalista Thomas Fazi e dall’economista Bill Mitchell, “Reclaiming the State: A Progressive Vision of Sovereignty for a Post-Neoliberal World”.
Libro, per ora, uscito solo in versione originale in lingua inglese, il cui titolo potremmo grossomodo tradurre con “Reclamare lo Stato: Una visione progressista della sovranità per un mondo post-neoliberale”.
Non sono nuovi tentativi di proporre il ritorno ad uno Stato più forte, basti ricordare i libri di Mariana Mazzucato.
Ma qui Fazi e Mitchell vogliono passare direttamente all’azione politica, e pretendere che lo Stato protegga i propri cittadini dalle crisi provocate della globalizzazione. Per farlo, è necessario chiamare alle armi della politica quella parte che ha abbandonato la sua missione storica volta a proteggere i più deboli: la sinistra.
Fazi si esprime da tempo su queste posizioni, ed ultimamente sta anche partecipando alla costruzione di un nuovo soggetto politico: Senso Comune.
L’australiano Mitchell aveva già scritto un libro sulla “distopia europea”; inoltre il suo blog è da tempo molto letto anche dalle nostre parti.
Moderati da Chiara Zoccarato, membro del dipartimento economia e lavoro di Sinistra Italiana, erano presenti, oltre ai due autori del libro, il direttore del Centro Riforma Stato Nicola Genga e l’onorevole Stefano Fassina, organizzatore dell’incontro.
LE PAROLE DI THOMAS FAZI
Fazi ha spiegato subito che il libro nasce dalla necessità di “orientare la sinistra verso il recupero di sé stessa”.
Troppe le svolte verso destra nel recente passato, fino al punto di accettare con ben scarsa critica la svolta neoliberale tra gli anni ’70 e ’80. Con Mitchell c’è stato lo sforzo di identificare ciascuno di questi punti di volta, a partire dalle decisioni del Primo Ministro inglese James Callaghan, laburista, nei primi anni ’70 fautore di un programma chiaramente socialista e poi piegatosi alle politiche di austerità quando diresse il governo di Sua Maestà tra il 1976 e il 1979.
Per Fazi c’erano alternative, altro che il There Is No Alternative di Margaret Thatcher! Si poteva andare oltre il compromesso socialdemocratico post-guerra, perché no anche ragionare sul superamento del capitalismo, ma si è scelto di non farlo. E non solo in Inghilterra, ma in tutti i Paesi in cui la sinistra ha governato a partire da allora.
Ora però la crisi del neoliberismo si fa sentire sempre più, e con essa lo scoppiare dei vari nazionalismi di stampo etnico. Per superarla è necessario recuperare, come da titolo del testo, una visione progressista della sovranità nazionale, che non deve essere necessariamente intesa in senso reazionario. È solo su questo piano che si possono riconquistare diritti perduti.
E parte dell’azione politica dovrà consistere nel liberare la mente delle persone da falsi miti macroeconomici, su cui è sceso più avanti nel dettaglio Mitchell.
IL PENSIERO DI FASSINA
Fassina ha poi preso la parola, riconoscendo l’importanza di questo libro in un momento in cui la crisi del pensiero europeista della sinistra è più che evidente. Crisi che travolge anche la stessa classe dirigente di cui lui fa parte, che a dire dell’ex democratico ha una difficoltà “psicoanalitica” nel riconoscere i problemi esistenti e capire perché i ceti popolari vanno sempre più a destra. Anche lui cerca di smentire l’idea che parlare di sovranità debba necessariamente intendersi come chiusura autarchica e sciovinista, che è in fondo l’interpretazione neoliberista del termine.
Una classe dirigente in cui Fassina non omette di aver militato, e in posti importanti. Ricordiamo qui che è infatti stato responsabile economia del PD di Bersani e sottosegretario all’Economia nel ministero di Fabrizio Saccomanni, quando al governo c’era Enrico Letta. E ai suoi dice che “è troppo facile prendersela solo contro Renzi; la svolta neoliberale era stata acquisita già da tempo.” Due momenti storici sono da lui individuati come particolarmente critici per la sinistra in Italia:
- il 1968, che diede il via a un forte movimento di contestazione popolare e giovanile e che portava con sè il rifiuto del peso dello Stato;
– il 1989, anno della caduta del Muro di Berlino. a partire dal quale è cominciato il rinnegamento dei propri valori da parte del ceto dirigente «rosso». - Va dunque a suo avviso respinto il leit motiv del “più Europa”, cancellando tutte quelle direttive che hanno svalutato il lavoro (la Bolkenstein, quella sugli ordini professionali, e tutte quelle che portano il principio del Paese d’origine), ed “è da sostenere un sano patriottismo costituzionale”.
Infine ha ringraziato gli autori per aver fatto riflettere su come nel neoliberismo non c’è stato affatto un ruolo diminuito dello Stato, ma anzi un intervento volto proprio a garantire il mercato, soprattutto nella sua evoluzione finanziaria, anche con operazioni di polizia. Un punto che il filosofo Michel Foucault sollevava già negli anni’70, allorquando dava lezioni sul neoliberismo al College de France (poi raccolte nel libro “Nascita della biopolitica”).
LE PAROLE DI NICOLA GENGA
Genga ha ricordato, prima ancora che lo facesse Mitchell, come “questo testo assume come propria teoria economica la Modern Monetary Theory (MMT)”, nota in Italia grazie al lavoro di Paolo Barnard.
Il direttore del CRS è allineato con gli autori quando si tratta di respingere le accuse di fascismo che vengono fatte a chi critica il neoliberismo, cosa che però la sinistra politica tendeva a non fare quando c’era il movimento di Seattle. E ricorda anche come parte del Partito Socialista Francese non aveva difficoltà a definirsi sovranista. Cita inoltre come positive “la distinzione tra economia e crematistica ricordata dal testo”, la critica al concetto neoclassico di efficienza, le proposte di lavoro garantito (da preferire rispetto a quelle sul reddito di base).
E’ però scettico sulla fattibilità del progetto. In particolare secondo lui
La sovranità monetaria è difficile da ottenere, e il libro non affronta il problema del soggetto politico che dovrebbe lottare per raggiungerla (e chissà, per Fazi magari per quanto riguarda l’Italia si tratta proprio di Senso Comune, di cui non ha però parlato in questa occasione);
È difficile portare il popolo a volere più Stato, visto che è stato abituato ad odiarlo dalla propaganda neoliberista, anche nelle sue varianti “politicamente scorrette” e populiste (alla Berlusconi, per intenderci).
Sul piano internazionale, il libro chiede giustamente di debellare la finanza rapace, nazionalizzare le banche, uscire dall’euro, stabilire un commercio solidale tra i Paesi del mondo, cancellare il debito di quelli più poveri. Ma sarà molto difficile trovare accordi mondiali su questi punti.
IL PENSIERO DI BILL MITCHELL
Il giro è stato chiuso da Bill Mitchell.
Anche lui è partito dal riconoscere “la crisi mondiale del pensiero di sinistra e della sua vicinanza al neoliberismo”. Ciò nonostante, ci ha ricordato, i suoi scopi originali non sono morti. E considerando che l’internazionalismo è sempre fallito per via degli interessi di ciascuna nazione, spiega brevemente il programma che ciascun governo dovrebbe praticare:
Entrare in pieno possesso dei poteri politici sulla propria moneta;
Implementare politiche per il pieno impiego attraverso piani di lavoro garantito finanziati attraverso emissione della moneta stessa, ricordandosi che diversamente da quanto racconta la vulgata, uno Stato non finisce mai le proprie risorse se è in controllo della propria banca centrale;
Imporre controlli sui movimenti di capitale per impedire perdite di ricchezza nazionale, misure volte alla stabilità e all’interesse generale, non alla privazione di libertà come si racconta.
“Sarà necessario sconfiggere l’ignoranza economica dilagante anche fra i politici” per raggiungere l’obiettivo di mettere la sinistra in condizione di praticare queste politiche e far tornare la sinistra a credere in sé stessa.
Buon esempio è per lui il suo proprio Paese, l’Australia, che in occasione della crisi finanziaria è intervenuto nell’economia in maniera forte. A dirla tutta interventi di questo genere ci sono stati anche in Europa tra il 2008 e il 2009, prima di ripiegare negli anni successivi su un’austerità in alcuni casi atroce.
Il libro è edito da Pluto Press, che già fece uscire The Battle For Europe di Fazi.
di Thomas Fazi
Di fronte alle nuove misure di austerità preannunciate da Padoan, è legittimo chiedersi perché i politici continuino a perseguire politiche che elettoralmente non pagano. Cerchiamo di vagliare le possibili ipotesi. Che in Europa negli ultimi anni si siano implementate politiche ultra-impopolari mi sembra lapalissiano. A questo punto possiamo ipotizzare che: (a) i politici nazionali siano stati costretti a implementare queste politiche dall’Europa, nel qual caso quest’ultima sarebbe un problema serissimo con cui fare i conti; (b) che i politici siano così stupidi o ottenebrati dall’ideologia da non rendersi conto che queste politiche sono impopolari: molto improbabile direi; (c) che le implementino nonostante si rendano perfettamente conto delle conseguenze in termini di perdita di consenso.
Onestamente quest’ultima ipotesi mi sembra la più probabile, anche se non si può negare che in qualche caso (vedi Tsipras) l’ipotesi (a) abbia giocato un ruolo fondamentale. Nel qual caso dobbiamo chiederci: lo fanno perché (c1) sono talmente convinti che queste misure siano necessarie per farci stare tutti meglio alla lunga, al punto di essere addirittura disposti a sacrificare il loro futuro politico sull’altare dell’interesse nazionale? O (c2) perché quelle politiche esprimono gli interessi dei blocchi di potere che quei partiti rappresentano. Onestamente la (c2) mi sembra la più plausible.
Aggiungerei solo un elemento: le classi politiche sono sempre più transnazionali, nel senso che il destino dei singoli politici è sempre meno legato a un singolo paese, data la possibilità di riciclarsi con postazioni profumatamente pagate negli organismi europei, internazionali o privati. Se tali politiche servano proprio ad “accreditarsi” presso i suddetti organismi, si potrebbe quasi ipotizzare che il “costo” delle politiche impopolari implementate a livello nazionale sia, per certi aspetti, sempre più basso.
Innanzitutto, desidero ringraziare a nome di tutta l’associazione Memmt Italia la redazione di Keynesblog, per aver pubblicato lunedì 20 Luglio, l’articolo riguardante la proposta dei Certificati di credito fiscale (CCF), formulata da Marco Cattaneo e da Giovanni Zibordi. Una proposta questa, simile, ma differente a quella dei Mosler bonds sviluppata a sua volta da Warren Mosler e da Philip Pilkington. L’ articolo pubblicato contiene parimenti un successivo commento di carattere prettamente critico, rivolto da parte di Guido Iodice e di Thomas Fazi alla proposta dei CCF.
Desidero inoltre premettere, che personalmente ritengo che il presupposto di base per il progresso civile della società, sia costituito dallo stimolante confronto dialettico avente ad oggetto diversi e/o a volta, simili punti di vista, i quali rappresentano in tal caso al più, marginali divergenze rispetto a più ampie visioni e approcci largamente condivisi.
In questo articolo, cercherò semplicemente di scomporre in più parti, una porzione dell’articolo scritto da Guido Iodice e da Thomas Fazi, in cui appare una critica ad un assunto base della teoria neo-cartalista (o memmt), circa precisamente il ruolo e gli orientamenti rispettivamente assunti e generati all’interno di un’economia monetaria di produzione, da parte dello strumento della tassazione. Rispondendo man mano a ciascuna parte di tale critica, proverò ad enunciare il punto di vista e la spiegazione analitica fornita in merito, dalla Mosler economics.
La parte del testo presa in esame esordisce come segue:
“In sostanza, i promotori sopravvalutano una affermazione della Modern Money Theory, secondo la quale la moneta legale ha valore perché con essa si pagano le tasse.”
A tal proposito, è doveroso specificare, che la Mosler economics spiega che le tasse guidano la moneta, riprendendo in tal senso, il principio fondamentale della teoria cartalista di G.F. Knapp. Con tale assunto, la Memmt intende affermare che, tramite l’imposizione ai propri cittadini di un’obbligazione fiscale pagabile esclusivamente nell’unità di conto emessa dallo Stato sovrano, quest’ultimo riesce ad orientare il comportamento dei suoi cittadini, i quali in virtù di tale imposizione saranno indotti ad accettare l’utilizzo della valuta di Stato con cui poter pagare le tasse e quindi, una parte di loro, sarà disposta ad offrire al governo o la propria forza lavoro o dei beni e servizi in cambio della moneta di Stato, con cui successivamente poter pagare le tasse e redimere questa passività.
Dunque, parimenti si inducono i cittadini di quel territorio, a destinare parte delle proprie risorse reali, ossia forza lavoro e/o beni e servizi di vario genere, al potere pubblico, il quale a sua volta sarà in grado di mobilitare tali risorse reali con il semplice obiettivo istituzionale di svolgere quelle attività ed attuare quelle politiche socio-economiche, che risiedono alla base del patto fondativo di una società democratica e civile, nonché alla base dei principi cardini sanciti dalla nostra Costituzione.
Penso ad esempio, alla garanzia perenne e all’erogazione universalmente e gratuitamente efficaci, di tutta una serie di servizi essenziali, quali ad esempio, l’istruzione, la sanità, la rete idrica, quella igienico-sanitaria, le rete ferroviaria, delle telecomunicazioni, il servizio postale ecc…. nonché la promozione dello sviluppo di tutta una serie di beni e servizi ritenuti strategici per il Paese, non tanto in termini competitivi, ma piuttosto in termini d’indipendenza economico-produttiva, la quale prelude poi a stabilire un’indipendenza e democrazia nazionali effettive.
Accettare dunque, l’utilizzo di una semplice unità di conto priva di valore intrinseco (ciò che in effetti è la moneta “fiat” o moneta moderna), per mezzo tra l’altro di un’imposizione, è qualcosa di completamente differente rispetto ad un giudizio di valore, rinvenibile nella fiducia e nel cosiddetto valore attribuiti in modo libero e spontaneo, da parte degli agenti economici nei confronti di una specifica moneta.
“Nella realtà la moneta legale, come qualsiasi moneta priva di valore intrinseco, è fiduciaria e quindi ha valore in base alla credibilità di chi la emette. Chi ha una banconota da 100 euro in tasca sa che c’è un impegno, da parte dell’emittente, a fare in modo che essa sia scambiabile tra un mese o un anno con un paniere di prodotti il cui valore reale sarà, nel peggiore dei casi, solo di poco inferiore a quello odierno (è questo il senso del target inflazionistico).”
Nel caso della valuta “fiat” (a tasso di cambio variabile quindi), l’unica promessa fatta dall’autorità statale emittente, è quella di convalidare al portatore della moneta di Stato, l’eventuale pagamento presso il dipartimento del Tesoro di un ammontare di tasse pari al valore nominale scritto su una banconota o riportato sul c/c bancario di un cittadino.
E’ molto importante, distinguere tra colui il quale emette la moneta, ossia lo Stato e coloro i quali non possono far altro che usare la moneta di Stato, ossia i cittadini.
Qualsiasi emettitore può fornire una quantità potenzialmente illimitata dei suoi IO-TI-DEVO e può concordare con i suoi cittadini di accettare indietro i suoi IO-TI-DEVO per il pagamento delle tasse. Il problema, riconosciuto dallo stesso Minsky, è indurre i cittadini ad accettare queste promesse future di pagamento, ossia questi IO-TI-DEVO emessi dallo Stato. Imponendo delle tasse o comunque altre tipologie di obbligazioni, quali ad esempio tariffe e ammende, il governo sovrano si assicura tale accettabilità da parte dei cittadini. E fintanto che il governo prometterà unicamente di accettare di riprendersi indietro i suoi IO-TI-DEVO per il pagamento delle relative obbligazioni, esso non potrà in alcun modo essere forzato a dichiarare default su tale promessa.
Tutti gli strumenti monetari sono strumenti finanziari e perciò, devono obbedire alle regole della finanza per avere un “valore”, ossia per poter essere accettati dalla popolazione. Infatti, un mezzo essenziale per conferire “valore” ad uno strumento finanziario è rappresentato dalla necessità per l’emettitore di tale strumento, di riprendersi indietro in futuro, quello stesso strumento finanziario che egli ha emesso.
A tal proposito, desidero riprendere una legge fondamentale della finanza formalizzata da Alfred Mitchell Innes, il quale sostiene che “la vera natura del credito in tutto il mondo, è il diritto riconosciuto al portatore di quel credito (al creditore), di restituire al soggetto emittente di quella passività (al debitore), le obbligazioni o il riconoscimento di debito del primo” (Innes 1914, 161).
Ciò che al contrario, determina fiducia in tale moneta, è la possibilità di godere dei più ampi benefici reali e/o monetari (beni reali acquistabili e/o profitti futuri realizzabili), all’interno dell’economia in cui quella moneta viene emessa (dal settore governativo) e viene utilizzata (dal settore privato non governativo). E quale miglior modo di consolidare la fiducia in tale moneta, se non attraverso l’adozione di tutta una serie di politiche macroeconomiche volte a garantire la piena occupazione e la stabilità dei prezzi!? Ossia la costruzione di un ambiente socio-economico florido e stabile su cui fare affidamento. Quindi, è in ultima istanza, la presenza di piena condizione lavorativa a generare fiducia in una determinata unità di conto e non l’imposizione di passività fiscali sui cittadini di uno Stato.
Sottolineo dunque, che fiducia e valore verso una moneta non sono strettamente collegate verso il significato e l’utilità operativa che caratterizza invece, lo strumento della tassazione in sé.
“Se fosse così semplice, allora nessun paese soffrirebbe mai di crisi monetarie e di iperinflazione, né vedremmo economie che ruotano di fatto intorno a valute estere (basti pensare all’Islanda prima della crisi del 2008).”
Sì è vero, anche le crisi valutarie fanno perdere la cosiddetta fiducia in quella valuta; o meglio, è proprio la perdita di fiducia da parte dei mercati finanziari nella capacità di uno Stato di mantenere alcune promesse politiche, come quelle rinvenibili ad esempio, in un regime di tassi di cambio fissi o semi-fissi o come era il caso del gold standard, a determinare la crisi valutaria e quindi, un eventuale default dello Stato in questione. E’ anche vero che, finché quel governo non sarà costretto a dichiarare default, i cittadini di quel Paese continueranno ad utilizzare la moneta di Stato, a meno che non si tratti di un Paese addirittura dollarizzato, ma quella è un’altra storia.
E’ altresì vero, che le crisi valutarie non possono colpire e riguardare degli Stati che emettono monete “fiat” a tasso di cambio variabile e che sfruttano a pieno, la discrezionalità e l’indipendenza in termini di spazio di libertà politica, che la moneta “fiat” conferisce al Parlamento e al Governo di un determinato Stato sovrano. E sfruttare a pieno tale “potenza di fuoco”, significa implementare delle tipologie di politiche socio-economiche volte a generare una condizione di piena occupazione e di stabilità dei prezzi e quindi, una conseguente fiducia verso le potenzialità e le opportunità offerte da quella unità di conto.
Di nuovo, la memmt spiega che se, contrariamente a quanto avviene con una moneta “fiat”, un determinato governo promette di convertire i suoi IO-TI-DEVO in metalli scarsi o in valute straniere, ad un prezzo relativo fisso, allora esso potrà in tal caso, essere obbligato a dichiarare default su questa sua promessa, in quanto l’onere delle eventuali perdite subite dai mercati finanziari verranno scaricate sull’agente monetario del governo, ossia sulla banca centrale, la quale sarà costretta a difendere costantemente il tasso di cambio per poter mantenere credibilmente tale promessa politica.
Allo stesso modo, il fenomeno dell’iperinflazione non è qualcosa che può verificarsi dall’oggi al domani, a meno che non si generino quelle contingenze che hanno accomunato i diversi casi storici di iper-inflazione, quali ad esempio una (prima) guerra mondiale o comunque una guerra civile, una capacità produttiva quindi distrutta ed inesistente, un debito di Stato denominato in valuta estera o in oro e così via. Infine, il caso dell’Islanda è particolare, in quanto nessun cittadino o entità stranieri hanno imposto allo Stato Islandese di attribuire al proprio sistema bancario nazionale la facoltà di stipulare contratti in valuta estera. Qui si tratta di una mera scelta politica che alla fine, e penso di concordare pienamente con i due autori su questo, si è rivelata completamente sbagliata, disastrosa e frutto d’incompetenza tecnica. Proprio a tal proposito, Warren Mosler si è espresso più volte contro la possibilità per il sistema bancario nazionale, di emettere o comunque di stipulare contratti in valuta estera, ossia in una moneta non emessa dallo Stato in questione.
“O che, se non bassa, l’inflazione sia almeno stabile e perciò prevedibile. Viceversa i cittadini di paesi che sperimentano tassi di inflazione elevati e crescenti per lungo tempo, alla fine, perdono fiducia nella moneta legale esattamente come la perderebbero in un assegno firmato da un noto protestato, e si rivolgono alle monete emesse da soggetti più affidabili (tipicamente gli Stati Uniti).”
Sì, giusto. E’ bene che l’inflazione, ossia il tasso di crescita del livello generale dei prezzi, sia stabile e comunque prevedibile. E proprio a tal proposito, la Memmt propone l’adozione di Programmi di Lavoro Garantito (PLG), con il governo che agirebbe come Datore di Lavoro di ultima istanza (o di prima istanza, a seconda dell’orientamento politico perseguito). La logica e l’innovazione di base di tale proposta (formulata da Hyman Minsky e riadattata in chiave moderna dalla Memmt), sarebbe quella di conferire al governo di uno Stato che detiene il MONOPOLIO PUBBLICO DI EMISSIONE DELLA PROPRIA MONETA “FIAT”, il ruolo di “market maker”, ossia di amministratore/gestore specialista del mercato del lavoro, volto a soddisfare in maniera infinitamente elastica, tutta la domanda e l’offerta di lavoro residuali. Si renderebbe così il mondo del lavoro, un mercato capitalistico completamente sviluppato con un “market-maker”, ossia il governo, che agirebbe in qualità di acquirente e/o offerente residuale di forza lavoro, assumendo tutti coloro i quali sono disoccupati, sono in grado e hanno voglia di lavorare. Il governo fisserebbe un salario minimo di base e stabilizzerebbe quindi, sia il livello dei salari e sia il livello generale dei prezzi. Di conseguenza, esso non fisserebbe i prezzi e i salari in modo da lasciarli invariati, ma ne ridurrebbe la rispettiva volatilità. Infatti, in questo caso stabilità è sinonimo di bassa variabilità.
“Sia chiaro, non si sta dicendo qui che l’Italia farebbe la fine dello Zimbabwe, ma semplicemente che un dubbio sul valore futuro dei CCF li renderebbe pressoché inservibili come stimolo alla domanda.”
Ovviamente anche noi crediamo che un Paese come l’Italia non farebbe in alcun modo la fine dello Zimbabwe e se mi è consentito aggiungere una mia opinione, il nostro Paese all’interno di questa gabbia delle torture che prende il nome di Eurozona, ha attualmente in mano un biglietto di sola andata per lo Zimbabwe (con tutto il profondo rispetto per tale Paese e per gli abitanti di tale Nazione), con destinazione prevista tra non più di 20’anni circa.
Concludo affermando che, la proposta dei CCF, se saputa gestire dal punto di vista tecnico, consentirebbe temporaneamente e quindi, nel breve termine, allo Stato italiano di agire in maniera anti-ciclica, al fine di generare quella spinta reflattiva di cui l’economia domestica ha urgentemente bisogno e per rendere anche più fluida, un’eventuale transizione dall’euro alla nuova moneta sovrana.