Articoli

fonte: http://sienanews.it/in-evidenza/caro-spread-ti-scrivo/
Oggi tutti sanno che il termine spread indica il differenziale tra il rendimento dei titoli di Stato decennali italiani (BTP) e i Bund tedeschi, ritenuti più affidabili. E’ curioso, tuttavia, che prima che la grande banca d’affari americana Lehman Brothers dichiarasse fallimento, lo spread dei titoli di Stato italiani non avesse mai superato i 30-40 punti base. Quel fallimento innescò la corsa, tanto che nel gennaio del 2009 lo spread toccava i 170 punti.
In realtà erano appena iniziati i tempi delle “nuove” crisi; la Grecia, non una banca, ma uno Stato, mostrava fragilità finanziaria. Così montava la preoccupazione del contagio di Italia, Spagna, Irlanda e Portogallo e, di diretta conseguenza, crescevano gli spread dei paesi periferici dell’Eurozona. Per la prima volta si metteva in discussione la tenuta dell’area euro.
Il 9 novembre del 2011 lo spread italiano toccò il massimo record, ancora oggi mai raggiunto, di 574 punti base. Conseguenza: cambio di Governo e riforme lacrime e sangue per noi italiani. Ne seguì, per il caro spread, un andamento altalenante, poi di nuovo il livello sopra i 500 punti – prima dell’intervento di Draghi e i programmi della BCE per sostenere la moneta unica – e, dopo, l’abbassamento, tanto da non sentirne quasi più parlare.
Finché il ministro dell’Economia Padoan, nel corso di un’audizione sulla legge di bilancio davanti alle commissioni Bilancio di Camera e Senato dichiara che lo spread italiano ha invertito la tendenza e che ciò dipende dai timori nel mercato che si interrompi l’azione di politica economica del Governo. Di fatto, dopo mesi di discesa, lo spread italiano in chiusura della scorsa settimana sale e raggiunge 160 punti. Inversione di tendenza? Sono diverse le partite sul piatto: l’aumento del deficit e le risorse necessarie per la manovra finanziaria; le politiche di austerity che non sembrano aver giovato ai dati economici dei paesi interessati e soprattutto il referendum costituzionale.
L’interrogativo ancora in sospeso è questo: come mai il rapporto debito pubblico su Pil nel 2011, anno di massima rilevazione dello spread era al 120,1% e quello previsionale della Commissione UE del 2016 è pari al 132,7%?
La solvibilità del nostro Paese è migliorata anche se il debito pubblico è aumentato? Quella variabile che dovrebbe essere influenzata prevalentemente da dati economici sembra invece essere strettamente legata alla politica. Lo spread italiano diventa un termometro più o meno sensibile rispetto alle necessità politiche da conciliare con le direttive europee. Anche la disoccupazione pari all’8,9% nel 2011 (dato allora più alto dal 2004) è ormai un ricordo nei confronti dell’attuale rilevazione a due cifre (11,7% ultimo mese rilevazione Istat). Ma il ministro dell’Economia valuta “la discesa dello spread in questi 30 mesi come l’apprezzamento, tra le altre cose, per la politica economica”.
Caro spread, chissà se sentiremo ancora parlare di te.
lettera

Fonte: Memmt Umbria, clicca qui
 

1. Una fotografia della realtà

Nel presente lavoro vengono analizzati i dati macroeconomici più rilevanti per comprendere l’impatto della crisi dell’Euro sulle economie greca e italiana. Nella prima sezione viene presentata la situazione generale dei due Paesi, con particolare riferimento a variabili come: la crescita della disoccupazione, l’andamento negativo del PIL, lo stato delle finanze pubbliche e il continuo aumento delle disuguaglianze. La seconda parte invece propone un nuovo approccio macroeconomico fondato sul concetto di finanza funzionale, che valuta le politiche pubbliche per il loro impatto sull’occupazione e la stabilità dei prezzi.

La situazione greca

Al momento dello scoppio della crisi economica nel 2007 il tasso di disoccupazione greco si attestava a circa l’8%, mentre le stime datate luglio 2013 riportano un tasso del 27,9%. Si tratta di un crollo occupazionale di proporzioni enormi, che ha portato la Grecia a perdere oltre 946.000 posti di lavoro, con circa un milione di disoccupati in più rispetto all’anno 2008 (Fig. 1).

Parallelamente all’aumento della disoccupazione si registra anche un crollo del tasso di crescita del Prodotto Interno Lordo, che passa dal +3,54% nell’anno 2007 al -6,38% del 2012 (Fig. 3).

occupazione_disoccupazione

Fig. 1: Andamento di disoccupazione ed occupazione in termini assoluti. Fonte: ELSTAT. 

grecia

Fig. 2: Andamento del tasso di crescita del PIL reale greco. Fonte: Eurostat.

Ma come si è arrivati a tutto questo? Per i policy maker europei l’origine della crisi si è manifestata attraverso l’innalzamento vertiginoso degli spread a causa del giudizio negativo dei mercati finanziari. Questo viene imputato all’eccessivo indebitamento pubblico permesso dai governi nazionali greci, e perciò la risposta economica proposta dalla Commissione Europea è l’imposizione di misure draconiane di austerità: ampi tagli alla spesa pubblica, diminuzione drastica dei salari, piani di privatizzazioni del patrimonio pubblico. In realtà, gran parte del deficit pubblico della Grecia non è discrezionale, bensì piuttosto il risultato degli stabilizzatori automatici. Nel momento in cui l’economia europea ha iniziato a piombare nella recessione, il gettito fiscale è crollato e sono cresciute le spese per ammortizzatori sociali, determinando uno scarto maggiore tra entrate fiscali e spesa pubblica.
Inoltre, la Grecia ha uno dei redditi pro capite più bassi d’Europa, le sue spese per ammortizzatori sociali sono davvero modeste e i costi di amministrazione del suo sistema di welfare sono inferiori a quelli delle burocrazie di Germania, Francia e Irlanda. Anche la spesa per il sistema pensionistico, che è il bersaglio principale degli economisti neoliberisti, è inferiore a quello degli altri Paesi europei. I dati non sono coerenti con il quadro, spesso presentato dai media, di un welfare state troppo generoso.

settoriali_grecia

Fig. 3: Saldi settoriali Grecia. Fonte: FMI
Quello che molti economisti faticano a capire è che le variazioni nel saldo del settore governativo (ovvero la differenza fra uscite ed entrate) hanno conseguenze opposte per il saldo del settore non-governativo (ovvero la differenza fra risparmi ed investimenti). Non si tratta di una teoria, ma di una semplice identità contabile basata sulla partita doppia: è l’approccio dei saldi settoriali.
Quando il settore governativo entra in deficit, le maggiori uscite corrispondono a maggiori risparmi per il settore privato (oppure a riduzioni del deficit del settore privato), più eventuali importazioni nette. La Grecia si è trovata per lungo tempo in deficit di partite correnti (saldo tra esportazioni e importazioni) così come un settore privato in deficit, dal -6% del PIL al -7.5% nell’anno 2008; in particolare le famiglie hanno visto i propri risparmi netti ridursi dal -7% al -11% del PIL.
Durante le recessioni, il settore privato riduce le spese e prova ad aumentare i risparmi, spostando il saldo del settore governativo verso territori di maggiori deficit, man mano che entrano in gioco gli stabilizzatori automatici.

I piani di salvataggio europei

Le misure di salvataggio imposte dalla Troika riusciranno difficilmente a invertire questo trend negativo, poiché si tratta di politiche pro-cicliche, i cui esiti si sono già dimostrati storicamente fallimentari (basti pensare ai casi dell’Argentina prima del 2001, o alle politiche neocoloniali del Fondo Monetario Internazionale, ispirate al Washington Consensus). Il deficit pubblico greco è già stato ridotto del 40% grazie a massici tagli alla spesa, ma nell’anno 2012 il limite dell’8.1% imposto dalle istituzioni europee è stato ampiamente sforato (il dato per il 2012 è un rapporto deficit/PIL del 10%) proprio a causa delle minori entrate fiscali e al crollo del PIL.
Da ciò emerge che nell’attuale configurazione dell’eurosistema non c’è possibilità per la Grecia di ripagare il proprio debito: per rispettare i vincoli europei il governo greco dovrebbe contrarre il suo deficit di circa il 10% del PIL, un obiettivo evidentemente irrealizzabile se non distruggendo ciò che resta del sistema economico europeo.
 

La situazione italiana

Anche l’Italia è stata duramente colpita dalla crisi economica. Ad inizio 2007 il tasso di disoccupazione italiano era del 6.2%, mentre le ultime stime relative al 2013 si attestano al 12%, con un preoccupante tasso di disoccupazione giovanile al 40%. Se nella prima metà del 2007 si contavano 1.429 milioni di disoccupati, le stime relative al 2013 ne contano 3,076 milioni.

grecia_italia_ue

Fig. 4: Tasso di disoccupazione di Grecia, Italia e media UE. Fonte: Eurostat.
ue_italia (1)
Fig. 5: Andamento della disoccupazione in Italia, e confronto con la media europea. Fonte: Eurostat.

L’introduzione della moneta unica ha profondamente modificato la struttura economia dell’Italia, portando quest’ultima a trasformarsi da Paese esportatore netto ad importatore netto, come si evince dal grafico in Figura 6. Ciò è dovuto principalmente alle politiche di deflazione salariale attuate dalla Germania al fine di guadagnare competitività, in un contesto (quello dell’unione monetaria europea) in cui il settore governativo si vede costretto a ridurre costantemente la sua spesa.
Questa situazione diventa insostenibile per il settore privato che deve diminuire necessariamente la sua ricchezza: in particolare dal 2005 si registra una tendenza a ridurre il deficit pubblico tanto da far precipitare il settore privato nell’indebitamento. Allo scoppio della crisi del 2007, gli stabilizzatori automatici riportano il settore privato in surplus, a dimostrazione di quanto il saldo del settore governativo e privato siano interconnessi: le minori entrate fiscali dovute al crollo di occupazione e consumi, e i salvataggi operati nei confronti degli istituti finanziari fanno aumentare il deficit pubblico fino al 2009. Le politiche europee promosse da questo punto in poi obbligano l’Italia a irrigidire la stretta fiscale, soprattutto con l’avvento del governo Monti nel 2011 e del governo Letta nel 2012.
settoriali_italia
Figura 6: Saldi settoriali per l’Italia nel periodo 1995-2010. Fonte: Haver, News N Economics
La tendenza al consolidamento fiscale ha come unico esito la persistente riduzione dei risparmi privati. Seguendo l’approccio dei saldi settoriali, si intuisce che in mancanza dei contributi forniti dal deficit pubblico (per via delle politiche di austerità) e dalle esportazioni nette (a causa della struttura dell’euro), non è possibile creare nuova ricchezza netta all’interno del settore privato. Se infatti pensiamo al settore privato nel suo complesso, il reddito di ogni agente è la spesa di qualcun altro. Se uno si arricchisce, qualcun altro si impoverisce.
Senza l’intervento del governo (spesa in deficit) o del settore estero (esportazioni nette), chi desidera lavorare per incrementare la propria ricchezza deve riuscire a trovare un altro agente disposto ad impoverirsi per permettergli di avere un impiego. La crescita della disoccupazione involontaria può allora essere pensata come la situazione in cui nessun agente privato è disposto a ridurre la sua ricchezza finanziaria netta per concedere un impiego.

2. Una soluzione per il lavoro

La finanza funzionale

L’approccio proposto dalla Modern Money Theory consente di rivoluzionare la concezione di finanza pubblica che vede come primario obiettivo l’equilibrio del bilancio dello Stato. Uno Stato emettitore della propria valuta non ha problemi di sostenibilità finanziaria dei suoi deficit, poiché grazie al rapporto diretto con la Banca Centrale è sempre in grado di effettuare pagamenti denominati nella sua valuta. Questa è la condizione necessaria per uno Stato con sovranità monetaria, in presenza della quale è possibile implementare un approccio definito come “finanza funzionale”, nelle parole dell’economista Abba Lerner (1951).
Per finanza funzionale si intende una tipologia di politiche fiscali e monetarie che non tengono conto della grandezza numerica del deficit, ma che considerano come unici parametri oggetto di attenzione la disoccupazione e la stabilità dei prezzi. Quando c’è disoccupazione, perciò, il governo dovrà spendere più moneta non solo come sostegno alla domanda aggregata, bensì al fine di creare posti di lavoro per coloro che non riescono a trovarne all’interno del settore privato. L’obiettivo di questo intervento pubblico è la piena occupazione, che può essere raggiunta mantenendo contemporaneamente la stabilità dei prezzi.
Di fatto, i prezzi sono fissati dalle imprese sulla base dei costi medi sostenuti, del contesto competitivo e dello stato di salute del ciclo economico; gli investimenti da esse effettuati sono quindi pro-ciclici, e risentono dell’incertezza radicale che pervade l’economia capitalistica. Numerosi studi dimostrano come la spesa pubblica riduca l’incertezza del ciclo economico, fornendo un tetto inferiore all’andamento dei redditi e quindi, lungi dal far esplodere il tasso di inflazione, contribuisca alla stabilità dei prezzi.

I programmi di Job Guarantee

Attraverso la sua capacità illimitata di spesa, il governo può istituire e finanziare dei programmi di lavoro garantito (Job Guarantee) che forniscano un impiego a tutti coloro che vogliono e sono in grado di lavorare. Il governo non andrebbe a fissare una quantità limitata di fondi da impiegare, bensì fisserà il salario erogato ai partecipanti al programma: si tratta di un approccio fondato non sulla quantità di forza lavoro da assumere, ma fondato invece sul prezzo della forza lavoro che verrà acquisita dal settore pubblico.
Poiché questa forma di investimento pubblico non è vincolata dal conseguimento di profitti, essa può essere diretta allo sviluppo di figure professionali in settori a bassa profittabilità ma ad alto valore sociale per la crescita della comunità. L’obiettivo politico della piena occupazione si lega quindi ad una diversa concezione di crescita economica, che sia rispettosa dello sviluppo umano e che comprenda anche l’attenzione a temi come la sostenibilità ambientale, l’inquinamento e lo sfruttamento delle risorse non rinnovabili.
I programmi di Job Guarantee non puntano, perciò, ad un incremento solo quantitativo della domanda aggregata, bensì ad incrementi mirati, volti a modificare la composizione del prodotto finale. In quest’ottica, non è più la crescita economica che conduce ad un aumento dell’occupazione, ma è la maggiore e migliore occupazione che porta alla crescita economica.
Chiaramente, questa situazione è possibile solo mediante l’approccio della finanza funzionale, il quale a sua volta trova spazio esclusivamente nel contesto di uno Stato emettitore della propria moneta, e quindi dotato di sovranità monetaria. Senza quest’ultima, infatti, lo Stato non si trova in condizione di poter finanziare la sua spesa in maniera illimitata e quindi non può ragionare in termini di finanza funzionale, vedendosi vincolato dall’entità dei propri deficit permessa dai suoi creditori.
Purtroppo all’interno della zona euro i Paesi membri sono privi di sovranità monetaria, in quanto hanno disgiunto le politiche fiscali (affidate ai singoli Stati) da quelle monetarie (affidate alla BCE). Ciò li espone non soltanto al pericolo della crescita esponenziale dei rendimenti pagati sulle proprie obbligazioni, ma li vincola al perseguimento di politiche economiche disgiunte da obiettivi sociali, e cari invece ai creditori istituzionali. Ne sono un esempio le procedure di riduzione del rapporto debito/PIL operate mediante tagli alla spesa pubblica, aumenti della pressione fiscale ed eventuali dismissioni del patrimonio pubblico; con la speranza di incrementare la fiducia degli investitori stessi nella solvibilità del Paese, la quale si pone necessariamente come massima priorità per qualunque governo nazionale.
Ciò provoca un totale congelamento delle funzioni della politica fiscale; l’impossibilità di effettuare piani d’investimenti pubblici o di detassare redditi d’impresa e da lavoro; la continua riduzione dei fondi a disposizione di tutti i sistemi di erogazione dei servizi pubblici (come sanità ed istruzione).
Per queste ragioni, la struttura dell’unione monetaria europea non permette l’implementazione dei piani di Job Guarantee: si richiederebbe una revisione dei Trattati fondanti dell’architettura monetaria, in particolare la cancellazione dei vincoli di Maastricht che impongono un limite massimo del 3% del rapporto debito/PIL, e il lancio di investimenti pubblici in deficit su scala comunitaria.
Non esistendo al momento alcun interesse politico nel perseguire queste riforme strategiche, il recupero della sovranità monetaria appare essenziale per la possibilità di implementare un programma di Job Guarantee.

Le cause della crisi in una cronistoria, in risposta al finanziere e sostenitore di Renzi che durante la trasmissione “Piazza Pulita” di La 7 si è lasciato andare ad una serie di sproloqui propagandistici. Che il conduttore Formigli inviti la Me-Mmt per un chiarimento

Il consigliere economico del futuro presidente del consiglio vuole tagliare le pensioni, gli stipendi dei dipendenti pubblici: “Dobbiamo pagare 50 miliardi l’anno per il Fiscal Compact”. Barnard: “Quanto siete monotoni, sempre tagliare, tagliare, tanto per voi una Tac c’è subito, non come noi”

Non che ciò mi stupisca, ma ci prendono proprio per il c***. A riposo causa influenza, decido di farmi del male e seguo i vari programmi TV che parlano dei risultati elettorali. Noto che il leitmotiv è uno: “attenzione che adesso risale lo spread”.
E ieri è salito, siamo a 342 punti base. Quindi? Significa che coloro che ciarlano negli studi televisivi o sono disinformatori professionisti o professionisti disinformati. Nessuno di loro fa un’analisi un pelino meno superficiale spiegando come mai nella prima metà degli anni ’90 lo spread era anche peggio ma nessuno ne conosceva l’esistenza, perché?

Voi però sapete perché prima non c’era nessun allarme default, vero?
Uno Stato a moneta sovrana, indipendentemente dallo spread, sarà sempre in grado di ripagare le sue obbligazioni puntualmente: negli anni ’90, con la lira, lo spread aveva la stessa influenza che ha Oscar Giannino in Parlamento, oggi.
Ci prendono leggermente per i fondelli. La cultura è un’arma, usiamola.