Si svolgerà il 5 e 6 novembre a Fiuggi un convegno organizzato da “Network per il Socialismo Europeo” www.ricostruire.info, intitolato “C’è un futuro per la Sinistra italiana?”
Tra i relatori presenti nella giornata di sabato, per MMT Italia, ci sarà la nostra Chiara Zoccarato, che interverrà nel dibattito “Euro e Unione Europea – La Sinistra al bivio”
Nell’immagine ripresa dalla brochure il programma delle due giornate.
Articoli
Di seguito un articolo del professor Sergio Cesaratto, apparso sul blog Politica&Economia, che approfondisce il tema del “vincolo esterno”, o delle cosiddette “partite correnti”, partendo dall’analisi del punto di vista della Mmt. In questi anni il confronto con Cesaratto, e con altri docenti di Economia italiani, è stato molto approfondito proprio su questo aspetto, forse l’unico discrimine posto da taluni ad una corretta applicazione della Modern Money Theory in un paese come l’Italia. Per ora non commentiamo l’articolo, già di per sé molto approfondito: ci fa piacere notare però che le posizioni che non troppi anni fa venivano giudicate totalmente inadatte all’Italia trovino qui invece un dettagliato riscontro anche dottrinale.
Nella foto, il confronto tra Warren Mosler e Sergio Cesaratto all’Università di Siena nel marzo 2014
Questo è il primo post che fa seguito alla promessa del libro di approfondirne parti, discutere critiche e quant’altro. Intenderei cominciare con la vexata quaestio del vincolo estero discussa nella quarta lezione del libro (Sei lezioni di economia, ndr). Lo faccio perché è politicamente oltre che economicamente centrale.
La questione è posta semplicemente: “E’ la piena sovranità monetaria, vale a dire il possesso di una banca centrale di emissione di una valuta non convertibile, condizione necessaria e sufficiente per l’implementazione di politiche di pieno impiego?”. Questa è la tesi in genere sostenuta dagli esponenti e sostenitori della Modern Monetary Theory (MMT).
La tesi opposta è quella che vede nell’insorgere di squilibri nei conti esteri l’ostacolo principale alla conduzione di politiche di piena occupazione, problema a fronte del quale la piena sovranità monetaria può solo limitatamente essere d’aiuto. Per vincolo estero si intende l’insorgere di squilibri commerciali (e in generale di partite correnti) prima che le politiche fiscali e monetarie abbiano condotto l’economia in piena occupazione. Un MMT, Philip Pilkington (2013), definisce questa tradizione “kaldoriana” dal nome del grande economista eterodosso Nicholas Kaldor (1908-1986). Questo secondo punto di vista è spesso ricondotto anche all’economista britannico Anthony Thirlwall.
“La questione scocciante – afferma Pilkington – è che i problemi sollevati dai kaldoriani sono veramente molto importanti”, sebbene “in contesti specifici”, si precisa. Non per gli Stati Uniti, egli sottolinea, e qui siamo tutti d’accordo. Gli USA stampano una moneta accettata da tutti per i pagamenti, spesso definita moneta di riserva, per cui possono finanziare disavanzi persistenti di bilancia dei pagamenti senza particolari problemi. Pilkington e altri autori MMT sembrano voler restringere la pregnanza della problematica dei kaldoriani ai paesi più arretrati. I kaldoriani sembrano avere invece in mente anche molti, sebbene non tutti, i paesi a uno stadio più avanzato di sviluppo.
La mia strategia in questo post sarà quella di dimostrare come alla fine ci possa trovare d’accordo, in maniera che ciascuno/a non si senta ferito/a nelle proprie suscettibilità e si possa archiviare questo punto (ma non le problematiche che lascia aperte) con reciproca soddisfazione. La critica che mi può essere mossa è di un cherry picking, ovvero di scegliermi passi degli autori MMT in maniera pro domo mea, isolandoli dal contesto. Mi reputo un giocatore piuttosto onesto, per cui preferisco vedere la cosa come la ricerca del diavolo che è nei dettagli, dunque nelle puntualizzazioni, nei caveat, nelle clausole contrattuali scritte in piccolo che gli autori MMT fanno alle loro preposizioni più impegnative, nell’arsenico che secondo Voltaire va aggiunto affinché il sortilegio con cui intendi uccidere un gregge di pecore abbia effetto.
Cambi fissi o flessibili?
Correttamente Sardoni & Wray (2007, p. 2) sostengono che gli economisti di tradizione keynesiana sono generalmente più favorevoli ai tassi di cambio fissi (ma aggiustabili) che a quelli flessibili. I due autori non spiegano questa preferenza, che può tuttavia essere riferita all’evitare il disordine nel commercio internazionale arrecato dalle svalutazioni competitive e agli effetti redistributivi sfavorevoli ai salari che possono risultare dal peggioramento delle ragioni di scambio con l’estero. Correttamente i due autori spiegano come la preferenza keynesiana per i tassi fissi si associ alla necessità di un ordine monetario internazionale, quale quello proposto da Keynes alla conferenza di Bretton Woods (un succinto ma efficace sunto della proposta di Keynes è in Lavoie 2015, pp. 2-5). Tale ordine avrebbe lo scopo di evitare che gli aggiustamenti delle bilance dei pagamenti avvengano solo attraverso misure deflazionistiche dei paesi in disavanzo tali da imprimere una tendenza deflativa all’economia globale, imponendo che l’aggiustamento ricada piuttosto sui paesi in surplus. Gli autori (pp. 3-4) concludono che, nell’impossibilità, oggi come ieri, di instaurare tale ordine a livello globale, cade anche l’argomento a favore dei cambi fissi (sebbene aggiustabili). Infatti:
To adopt a regime of fixed exchange rates without the creation of some sort of ‘world government’ implies that single countries renounce their sovereignty, i.e., their ability to maintain fiscal and currency independence.
Accordo fra “kaldoriani” e MMT: Ordine e istituzioni monetarie internazionali (o al limite europee) sulle linee della International Currency Union di Keynes sono in via di principio desiderabili. In loro assenza è tuttavia preferibile l’adozione di cambi flessibili, o meglio la non adesione a sistemi (accordi) di cambio fissi – evidentemente a seconda delle circostanze un governo monetariamente sovrano cercherà di pilotare il cambio nella direzione desiderata.
I tassi di cambio aggiustabili aggiustano sempre?
Proporre politicamente in Europa un sistema alla Keynes come proposto da Fantacci e Papetti o dal Keynes blog per superare l’euro può dunque essere strumentalmente opportuno, anche se il realismo ci suggerisce di pensare che il recupero della flessibilità del cambio sia una prospettiva più concreta. Ma funziona sempre? La questione che molti “kaldoriani” sollevano è che la flessibilità del cambio come “spazio” per perseguire politiche domestiche di piena occupazione senza preoccuparsi (troppo) del vincolo esterno incontra almeno tre problemi: 1) richiede una elevata elasticità delle esportazioni (che devono aumentare) e delle importazioni (che devono diminuire); 2) il deprezzamento del cambio, accrescendo il prezzo dei beni importati può avere effetti redistributivi sfavorevoli ai salari; 3) questi effetti possono addirittura essere tali da incidere negativamente sulla domanda aggregata – sia nel caso in cui i beni salario importati non abbiamo sostituti domestici, e questo comporti una contrazione dei consumi di beni domestici), che per l’aumento del valore reale del debito estero, pubblico e privato, se denominato in valuta estera (su quest’ultimo aspetto torneremo diffusamente) (Medeiros & Trebay, 2016: 21).
Wray & Sardoni (2007: 15-16) non discutono esplicitamente di questi problemi, ma traspare un’evidente cautela circa le virtù taumaturgiche dei cambi flessibili. Si vedano per esempio questi passi, che contengono parecchi spunti che commentiamo di seguito:
A sovereign nation is able to use domestic policy to achieve domestic or internal stability. As discussed above, this comes at the cost of possibly greater external instability. A floating exchange rate will not necessarily move trade toward balance, as discussed above. However, it must be remembered that from the macro perspective, imports are a benefit while exports are a cost. Hence, a trade deficit means net benefits. This is usually neglected in discussions of trade balances because of the presumed impacts on domestic employment. However, so long as the nation’s domestic policy is geared toward stability, it can achieve full employment, even in the presence of a trade deficit. This, in turn, requires sovereignty, which necessitates a floating exchange rate. It is possible that a trade deficit can exert downward pressure on the exchange rate, which can generate some “pass through” impacts on domestic inflation. If desired, domestic policy can turn to inflation-fighting, including the conventional method of using unemployment to attenuate inflation pressures. While we would not advocate such a method, we merely point out that the sovereign nation can implement policy geared toward achieving internal stability. (miei corsivi)
L’argomentazione è parecchio complessa. Mi sembra che emergano i seguenti punti-arsenico:
– tassi di cambio flessibili non assicurano necessariamente l’equilibrio commerciale.
– la flessibilità del cambio può avere effetti sull’inflazione domestica per contrastare la quale si può dover ricorrere a un accrescimento della disoccupazione.
Da ambedue i punti di vista, oltre ai punti 1-3 più sopra, sembra che si debba guardare con cautela ai cambi flessibili ai fini dell’obiettivo della piena occupazione.
Accordo: la flessibilità del cambio va usata con cautela ed a seconda delle circostanze specifiche di un paese.
In passing, nella citazione i due autori ribadiscono la tradizionale proposizione MMT per cui per un paese è in fondo vantaggioso avere una bilancia commerciale in passivo sì da vivere al di sopra dei propri mezzi. Nulla da obiettare, naturalmente, tutti vorremmo fare come gli americani, ed è un peccato che l’Europa che potrebbe permetterselo non lo faccia, non finanzi cioè persistenti disavanzi commerciali stampando euro. Questo punto ci conduce a un’altra vexata quaestio: quali paesi si possono permettere persistenti disavanzi della bilancia dei pagamenti indebitandosi nella propria valuta? Il punto è importante perché se è vero che non possiamo affidare l’equilibrio con l’estero al sortilegio dei cambi, un po’ di debito estero per finanziare i disavanzi esterni può apparire inevitabile (ma se in valuta estera può diventare un vero arsenico e far fuori noi assieme al gregge).
Solvibile sin tanto che hai la printing press
Se la flessibilità del cambio va usata con cautela e a seconda delle situazioni specifiche, una strada alternativa al finanziamento dei disavanzi esteri risultanti dalle politiche di pieno impiego è quello dell’indebitamento con l’estero. MMT e “kaldoriani” sono d’accordo che un paese monetariamente sovrano è sempre solvibile nel proprio debito estero se denominato nella valuta nazionale (di emissione). Non credo che vi sia bisogno di citazioni al riguardo. Voglio solo notare come questa posizione MMT sia stata spudoratamente plagiata da decine di economisti mainstream (Paul De Grauwe in primis) che l’hanno appresa dalla rete e fatta propria, senza il minimo riconoscimento a chi per primo l’ha sostenuta.
Si noti di passaggio che da ultimo il debito estero che conta è quello relativo al settore pubblico nell’ipotesi che quest’ultimo si assuma un eventuale debito estero delle banche insostenibile per queste ultime, come sostiene Daniel Gros (2013: 512): “Durante una crisi finanziaria il debito privato accumulato durante il precedente boom è solitamente trasformato in debito pubblico”.
Accordo: un paese che emetta debito estero denominato nella propria valuta è sempre solvibile.
Original sin
La questione sembra dunque essere che molti paesi nella loro storia sono incorsi in quello che è stato definito “peccato originale” di aver emesso debito estero denominato in una valuta straniera (Eichengreen et al. 2003). Questo spiana la via degli inferi, o almeno la cacciata dal Paradiso terrestre: il default sul debito estero.
“The alternative theory, ‘original sin’, seeks to explain why many emerging markets are volatile and prone to crisis by focusing on three characteristics that such countries often share: good economic prospects, a certain degree of openness to international capital flows, and a national currency that cannot be used by local firms or the government to borrow abroad, and cannot be used, even at home, for long-term borrowing— a weakness, or ‘sin’, shared by the currencies of almost all emerging market economies.
If a country is economically promising and reasonably open, then people will want to invest. But if its currency cannot be used for either foreign or long-term borrowing, would-be investors must choose between borrowing in a foreign currency such as dollars or borrowing short-term. If a company borrows in dollars to finance a project that generates pesos, a subsequent devaluation of the peso could lead to bankruptcy. If instead the company undertakes a longer-term project and finances it with short-term loans, it will go bust if liquidity dries up and it cannot get the loans renewed. In other words, investments will suffer either from a currency mismatch, because projects that generate local currency are financed with dollar loans, or a maturity mismatch, because longer-term investments have been financed with short-term loans.
This scenario is a recipe for financial fragility. Such systems will be extremely vulnerable to sudden declines in the amount of liquidity in the banking system and to sudden depreciations of the currency. In fact, as the domestic currency starts to decline, companies fearful of further depreciation will attempt to buy foreign currency in order to cover their exposures. This decision will only make matters worse by causing the domestic currency to depreciate even further— a dynamic that can take place even in a floating-rate country, as was the case of Indonesia at the time of its final collapse. For its part, the government will seek to defend the currency by using its international reserves. But using those reserves will dry up the amount of money in the domestic banking system, and as liquidity declines, banks will be forced to call in their loans, precipitating a banking crisis caused by the maturity mismatches. So the two mismatches interact. In fact, such a system is subject to self-fulfilling crises, as in a bank run: If people fear that others may take their money out, they will want to be the first to the door.” Hausmann (1999)
Accordo: La storia suggerisce che il peccato originale porta alla cacciata da un temporaneo paradiso, dunque dopo un periodo di euforia economica segue una crisi finanziaria con un default sul debito estero.
Dimmi allora quel che hai fatto, chi te l’ha mai messo in testa…
La domanda è allora: perché molti paesi nei secoli dei secoli hanno reiterato il peccato originale (lo reiterano e lo reitereranno)?
Una risposta plausibile è che lo fanno paesi con bilance dei pagamenti e valute “deboli”, i cuori deboli insomma: l’indebitamento in valuta straniera o l’adozione di sistemi di cambio in cui si assicura la convertibilità della propria moneta in una moneta internazionale a un tasso fisso sono veicoli con cui raccogliere capitali esteri altrimenti non raccoglibili emettendo titoli in valuta nazionale, considerati insicuri dagli investitori stranieri (insicuri nel senso di portatori di un rischio di svalutazione rispetto alle monete internazionali).
Il punto di vista MMT quale espresso da Bill Mitchell (2009) è il seguente.
Il finanziamento estero da parte dei paesi in surplus dei disavanzi dei paesi in deficit corrisponde a ricchezza desiderata da parte dei primi, per cui il settore estero dovrebbe essere in via di principio disponibile a finanziare i disavanzi anche se emessi nella moneta del debitore. (Il lettore MMT potrà qui percepire un’assonanza con l’argomento per cui in economia chiusa ai disavanzi pubblici corrisponde la creazione di ricchezza netta desiderata dal settore privato). Il paese in disavanzo “finanzia” (so to speak) il desiderio di ricchezza netta del settore estero (del paese in surplus) potendo in tal modo vivere “al di sopra dei propri mezzi”.[1]Qui Mitchell introduce un punto-arsenico, e cioè che il desiderio del paese in surplus di accumulare titoli denominato nella moneta del debitore non sia illimitato. [2] Più in là Mitchell appare più ottimista argomentando che non v’è ragione perché i paesi in surplus perdano il loro appetito per i titoli dei paesi in disavanzo.[3] Ma aggiunge però un nuovo punto-arsenico: l’appetito non scompare nella misura in cui il paese offra sufficienti garanzie di stabilità economica per cui continuerà a servire il debito estero.[4] L’esperienza storica ci suggerisce al riguardo che pochi paesi offrono tale garanzia, paesi come Australia, Nuova Zelanda e Canada che gli MMT, in linea con Eichengreen et al. (2005), indicano come quelli che hanno potuto conciliare persistenti disavanzi esteri (e connesso indebitamento) con la continua emissione di titoli del debito estero denominati in moneta nazionale. Purtroppo l’esperienza della stragrande maggioranza dei paesi fuori del piccolo club dei paesi che emettono monete internazionali o sono ex colonie WASP evidenzia l’assenza di tali garanzie di stabilità. Randall Wray (2011a) lo suggerisce con chiarezza esemplare.[5]Fonte: B. De Conti, A. Biancarelli, P. Rossi,Currency hierarchy, liquidity preference and exchange rates: a Keynesian/minskyan approach, Congrès de l’Association Française d’Économie Politique, Université Montesquieu Bordeaux IV, 2013. Mamma li turchi! Si possono pagare le importazioni nella propria valuta nazionale? Esistono delle valute definite di riserva o internazionali che sono quelle in cui preferibilmente si svolge il commercio internazionale. Poiché le riserve valutarie sono in genere investite nei titoli di Stato del paese che ha emesso quella valuta (per esempio i cinesi investono i dollari che hanno nelle riserve ufficiali in T-bonds americani), la stabilità politico-economica del paese in oggetto conta molto (Eichengreen at al. 2005).Nel primo trimestre 2016 la composizione percentuale delle riserve era suddivisa in: 20,37% €; 63,59% $ USA; 4,08% Yen; 4,79% £ britannica; 0,28% franco svizzero; 6,89% altro (di cui 1,95% $ australiano e 1,90% $ canadese). (Fonte: Natixis)La fatturazione del commercio internazionale è poi soggetta a rapporti di forza: in genere è decisa da chi emette la fattura. E’ vero quanto dice Wray che: “if you offer US or Canadian or Australian Dollars, or UK Pounds, or Japanese Yen, or Euroland Euros, you will NEVER find a lack of bidders. The only question is over the price. Heck, I’ve offered Mexican Pesos, and Colombian Pesos, and Turkish Lira and many other currencies many times, and never found a lack of bidders”, cioè che anche monete “non di riserva” hanno mercato e possono essere accettate per i pagamenti internazionali. La domanda proverrà da chi intende effettuare acquisti presso il paese di emissione, per esempio beni turchi. Ma in assenza di una sufficiente domanda di questi beni, vale a dire se per esempio la Turchia emette 100 miliardi di £ turche per finanziare le importazioni dall’estero (supponendo che gli stranieri accettino la fatturazione in lire), ma la domanda di beni turchi è di soli 80 miliardi, è possibile che 20 miliardi di £ turca vengano scambiati, per esempio, con dollari USA. La Turchia può a quel punto decidere se lasciar cadere il valore della lira rispetto al dollaro, o se il deprezzamento è indesiderato, può soddisfare la domanda di dollari acquistando lire e cedendo dollari dalle riserve. Se questi dollari non ci sono, o non si vogliono toccare le riserve, la banca centrale o le banche commerciali turche possono ricorrere a prestiti esteri. Con un po’ di fantasia quello che accade è che gli stranieri in possesso dei 20 miliardi di lire turche di cui si vogliono disfare ottengono $ dalla Turchia che se li fa prestare dai medesimi stranieri. [In altri termini, la Turchia si riprende i 20 miliardi di lire turche e in cambio rilascia un “pagherò” (un IOU ben noto agli amici MMT) in cui c’è scritto “ti vendo 20 miliardi di dollari”]. Ecco che, nonostante all’inizio la Turchia abbia fatturato in moneta nazionale, alla fine ha maturato un debito netto in valuta straniera. Oh, è evidente che la Turchia avrebbe dal principio potuto dichiarare la non-convertibilità della propria moneta: ma siamo sicuri che gli esportatori tedeschi, giapponesi o italiani avrebbero accettato di essere pagati in £? E’ evidente che se ripetessimo l’esercizio per il Canada, voi mi potreste dire che il problema non c’è: il Canada fattura in $ canadesi, e se c’è un disavanzo di bilancia dei pagamenti, i dollari canadesi verranno prestati al Canada medesimo che matura così un debito estero nella propria valuta (come i cinesi riprestano al Tesoro USA i dollari guadagnati col surplus commerciale). E infatti il $ canadese è valuta di riserva. La lira turca non lo è, e non lo era la lira italiana (e probabilmente non lo era il franco francese). Insomma, non è che proprio non si possa fatturare nella famosa Pizza di fango del Camerun, o nella lira italiana, ma ci sono dei limiti molto seri.Accordo: l’esperienza storica suggerisce che al di fuori di un relativamente ristretto numero di paesi caratterizzati da notevole affidabilità politico-finanziaria, per altri paesi è complicato indebitarsi nella valuta nazionale; sono questi i paesi che poi cadono facilmente nell’original sin.Come menzionato nel mio libro (p. 201), almeno con riguardo ai paesi più arretrati, Mitchell sembra suggerire misure diverse dall’indebitamento in valuta straniera per aggirare il vincolo estero, come il controllo delle importazioni o la sostituzione delle importazioni.[6]Accordo: se la flessibilità del tasso di cambio non è misura sufficiente a rendere compatibili vincolo esterno e piena occupazione, mentre il paese non desidera indebitarsi in valuta estera, altre misure sono possibili come il controllo delle importazioni o una politica industriale volta a sostituire le importazioni.[7]Queste ultime sono naturalmente misure politicamente difficili (il controllo delle importazioni) o molto complicate da condursi in maniera efficiente (la politica industriale di sostituzione delle importazioni), ma ciò che qui ci preme sottolineare è che vi sia un’ampia convergenza di vedute sul fatto che non vi siano sortilegi, ma una varietà di arsenici a cui ricorrere.Accordo finale: il vincolo estero è tale da rendere impossibili le politiche di pieno impiego? No. C’è una varietà di strumenti che si possono impiegare, nessuno miracolistico, alcuni politicamente difficili da adottare.Guida bibliografica:
Una buona guida al modello di Thirlwall è dovuta alla sempre ottima (e sempre troppo critica) Antonella Palumbo Palumbo, A.2011. “On the theory of the balance-of-payments-constrained growth.” In Sraffa and Modern Economics, edited by R.Ciccone, C. Gehrke and G. Mongiovi, vol. II, 240–259. London and New York:Routledge. Sul ruolo delle esportazioni in Kaldor si veda di Antonella anche: Adjusting Theory to Reality: The Role of Aggregate Demand in Kaldor’s Late Contributions on Economic Growth, Review of Political Economy, 21/2009 (pdf al link). I mutamenti del punto di vista di Kaldor sull’efficacia della flessibilità del cambio sono segnalati da Ramanan nel suo bel blog:http://www.concertedaction.com/2013/04/25/nicholas-kaldor-on-floating-exchange-rates/. Sui default sul debito estero (denominato, com’è tipico in valuta straniera), la letteratura è immensa; studi recenti includono: E.Cavallo, B.Eichengreen, U. Panizza, Foreign savings: No gain, some pain,http://voxeu.org/article/foreign-savings-no-gain-some-pain (e il WP lì citato); antesignano di questi studi è un grande economista nato a Cuba, Díaz Alejandro: si veda al riguardo , Carmen M. Reinhart,The Antecedents and Aftermath of Financial Crises as told by Carlos F. Díaz Alejandro, NBER Working Paper No. 21350 (scaricabile anche da altri siti cercando su google). Che il problema della crisi europea siano i debiti esteri (stipulati, appunto, in una moneta straniera, l’euro), e che dunque la crisi europea nasca come una variante delle tradizionali crisi di bilance dei pagamenti, è esemplarmente esposto da Daniel Gros, Foreign debt versus domestic debt in the euro area, Oxford Review of Economic Policy, 29(3):502-517 · December 2013, che purtroppo richiede chiavi di accesso da biblioteche accreditate, ma si veda il sommario qui:http://voxeu.org/article/external-versus-domestic-debt-euro-crisis. Gros (che ha studiato Economia alla Sapienza) è ahimè spesso un economista molto bacchettone, ma a volte scrive cose molto chiare e condivisibili.
Teorico della necessità di una politica industriale di sostituzione delle importazioni fu l’economista argentino Raul Prebisch (1901-1986). Per una recente discussione di questa strategia v. F. Amico, Notas sobre la Industrialización por Sustitución de Importaciones en Argentina: Buscando adentro la fuente de la competitividad externa,http://ojs.econ.uba.ar/ojs/index.php/H-ind/article/view/391/715. Non sorprendentemente l’articolo esordisce con il seguente passo: “En los textos fundacionales del estructuralismo, un problema central de la industrialización latinoamericana fue la escasez de divisas” (“Nei testi fondativi dello strutturalismo, un problema centrale della industrializzazione latino-americana è stata la scarsità di valuta estera”). La scuola strutturalista latino-americana è stata la scuola eterodossa indiscutibilmente dominante in quel continente, daAndre Gunder Frank (1929-2005) a Celso Furtado (1920-2004).
Altri riferimenti
Eichengreen, B., Hausmann, R. & Panizza, U., The Mystery of Original Sin,elsa.berkeley.edu/~eichengr/research/osmysteryaug21-03.pdf (pubblicato in Barry Eichengreen and Ricardo Hausmann (eds.), OtherPeople’s Money, Chicago University Press, 2005)Lavoie, M. 2015a. “The Eurozone: Similarities to and Differences from Keynes’s Plan.” International Journal of Political Economy 44, no. 1 (Spring): 3–17. Versione WP: www.boeckler.de/pdf/p_imk_wp_145_2015.pdf
De Medeiros C.A. & N. Trebat (2016), Latin America atCrossroads: Controversies on Growth, Income Distribution and StructuralChange,www.ie.ufrj.br/index.php/index-publicacoes/textos-para-discussao
Hausmann, R. (1999), “Shouldthere be fivecurrencies or 105?”, Foreign Policy(Fall). www.iadb.org/res/publications/pubfiles/pubS-121.pdf
Mitchell, B. (2009) Modernmonetarytheory in an open economy,billy blog,bilbo.economicoutlook.net/blog/?p=5402
Philip Pilkington: Why MMT is Right and the Dreamers are Wrong – Kaldor Versus the Kaldorians, http://www.nakedcapitalism.com/2013/03/philip-pilkington-why-mmt-is-right-and-the-dreamers-are-wrong-kaldor-versus-the-kaldorians.html
Sardoni, C. &Wray , L.R. (2007), Fixed and Flexible Exchange Rates and Currency Sovereignty, Levy Institute, Working Paper No. 489 | January 2007
Wray, R. (2011a), Currency Solvency and the Special Case of the US Dollar,MMP Blog n. 25,http://neweconomicperspectives.org/2011/11/mmp-blog-25-currency-solvency-and.html
Wray, R. (2014), MMT AND EXTERNAL CONSTRAINTS,http://neweconomicperspectives.org/2014/02/mmt-external-constraints.html
(Come al solito ringrazio Giancarlo Bergamini per aver riletto ed emendato il testo. Mi scuso per aver lasciato in inglese molte citazione, ma il tempo è tiranno!)
[1] “As I have indicated often a CAD [current account deficit] can only occur if the foreign sector desires to accumulate financial (or other) assets denominated in the currency of issue of the country with the CAD. This desire leads the foreign country (whichever it is) to deprive their own citizens of the use of their own resources (goods and services) and net ship them to the country that has the CAD, which, in turn, enjoys a net benefit (imports greater than exports). A CAD means that real benefits (imports) exceed real costs (exports) for the nation in question.This is why I always say that the CAD signifies the willingness of the citizens to “finance” the local currency saving desires of the foreign sector. MMT thus turns the mainstream logic (foreigners finance our CAD) on its head in recognition of the true nature of exports and imports.”[2] “Subsequently, a CAD will persist (expand and contract) as long as the foreign sector desires to accumulate local currency-denominated assets. When they lose that desire, the CAD gets squeezed down to zero. This might be painful to a nation that has grown accustomed to enjoying the excess of imports over exports. It might also happen relatively quickly.”[3]“As the global economy grows, there is no reason to believe that the rest of the world’s desire to diversify portfolios will not mean continued accumulation of claims on any particular country.”[4]“As long as a nation continues to develop and offers a sufficiently stable economic and political environment so that the rest of the world expects it to continue to service its debts, its assets will remain in demand.”[5] “There is little doubt that US dollar-denominated assets are highly desirable around the globe; to a lesser degree, the financial assets denominated in UK Pounds, Japanese Yen, European Euros, and Canadian and Australian dollars are also highly desired. This makes it easier for these nations to run current account deficits by issuing domestic-currency-denominated liabilities. They are thus “special.”Many developing nations will not find a foreign demand for their domestic currency liabilities. Indeed, some nations could be so constrained that they must issue liabilities denominated in one of these more highly desired currencies in order to import. This can lead to many problems and constraints—for example, once such a nation has issued debt denominated in a foreign currency, it must earn or borrow foreign currency to service that debt. These problems are important and not easily resolved.If there is no foreign demand for IOUs (government currency or bonds, as well as private financial assets) issued in the currency of a developing nation, then its foreign trade becomes something close to barter: it can obtain foreign produce only to the extent that it can sell something abroad. This could include domestic real assets (real capital or real estate) or, more likely, produced goods and services (perhaps commodities, for example). It could either run a balanced current account (in which case revenues from its exports are available to finance its imports) or its current account deficit could be matched by foreign direct investment.Alternatively, it can issue foreign currency denominated debt to finance a current account deficit. The problem with that option is that the nation must then generate revenues in the foreign currency in order to service that debt. This is possible if today’s imports allow the country to increase its productive capacity to the point that it can export more in the future—servicing the debt out of foreign currency earned on net exports. However, if such a nation runs a continuous current account deficit without enhancing its ability to export, it will almost certainly run into debt service problems.”[6] “well targetted government spending can create domestic activity which replaces imports. For example, Job Guarantee workers could start making things that the nation would normally import including processed food products” Mitchell (2009).[7]Wray(2014) si esprime in termini simili riassumendo il suo pensiero: “the MMT principles apply to all sovereign countries. Yes, they can have full employment at home. Yes, that could lead to trade deficits. Yes that could (possibly) lead to currency depreciation. Yes that could lead to inflation pass-through. But they have lots of policy options available if they do not like those results. Import controls and capital controls are examples of policy options. Directed employment, directed investment, and targeted development are also policy options.”
Nel video allegato proponiamo l’intero ricco confronto che si è tenuto lo scorso 20 giugno presso la Città dell’Altra Economia, a Roma, per il convegno “Mmt e la nuova Resistenza” che ha visto la partecipazione, come relatori, di Alfonso Gianni per il Comitato per il No alla modifica costituzionale, del professor Sergio Cesaratto, del professor Stefano Sylos Labini, dell’onorevole Alfredo D’Attorre (Sinistra Italiana) e di Antonio Maria Rinaldi (Alternativa per l’Italia).
Con l’attuazione del mercato unico europeo e del Trattato di Maastricht, l’integrazione europea si è affermata come progetto di ristrutturazione a lungo termine dell’economia europea in senso neoliberista. Il Patto di Stabilità e Crescita, l’affermazione delle “libertà fondamentali” del mercato unico e l’Unione monetaria europea, rappresentano l’impalcatura istituzionale che ha alimentato le politiche di austerità, lo smantellamento dei diritti dei lavoratori e dello stato sociale e le politiche di privatizzazione in tutti gli stati membri dell’UE.
Contrariamente alla tesi che vuole l’UE come un campo di gioco neutrale, gli eventi successivi alla Grande Recessione del 2007/9 hanno evidenziato come l’attuale progetto di integrazione europea sia segnato dalla natura regressiva dei trattati che lo definiscono e da una radicalizzazione senza precedenti del suo carattere neoliberista. Rapporti asimmetrici e relazioni gerarchiche di potere (centro-periferia) caratterizzano da lungo tempo l’integrazione europea, ma hanno raggiunto il loro culmine con il dominio tedesco sugli orientamenti di politica economica negli anni successivi alla Grande Recessione. Gli sviluppi normativi che hanno accompagnato la creazione dell’eurozona e le misure prese in risposta alla crisi dell’euro, con l’imposizione di vincoli sempre più stringenti e di regole e strumenti di governance con sempre minore legittimazione (Patto EuroPlus, Fiscal Compact ecc.) hanno accentuato il carattere autoritario e neoliberista di tale progetto di integrazione, che è diventato una vera minaccia alla democrazia e alla sovranità popolare.
L’euro – Una valuta alla radice della crisi
La crisi dell’euro è il prodotto di un errore di concezione e un difetto di costruzione dell’Unione Monetaria Europea (UME), che ha avuto fin dall’inizio quali obiettivi prioritari l’austerità e il contenimento dell’inflazione. Per gli stati membri dell’eurozona, lungi dal condurre ad un processo di convergenza economica e sociale, la prospettiva di uno “sviluppo economico reale” (in termini di salari, produttività ecc.) si è progressivamente allontanata. L’Emu ha finito per alimentare pesanti squilibri macroeconomici (crescenti deficit delle partite correnti non solo nell’Europa meridionale più periferica, ma anche in Francia e in Italia, cui hanno corrisposto crescenti surplus in Germania e in altri paesi) e ha condotto, in una prima fase, a ingenti flussi di capitali dal centro alla periferia dell’eurozona. La disponibilità di credito a buon mercato ha alimentato bolle speculative immobiliari e finanziarie, determinando un aumento consistente del debito privato e, in alcuni casi, di quello pubblico.
Un’importante determinante di tali squilibri è stata la politica di contenimento del costo del lavoro in Germania, realizzata attraverso la riorganizzazione della filiera produttiva dell’export tedesco, con l’utilizzo di lavoro a buon mercato dell’Europa orientale, con politiche di dumping salariale e fiscale e con tagli alla spesa sociale.
La conseguenza di tutto questo è stata una forte pressione sulle economie più deboli perché aumentassero la “competitività internazionale” dei rispettivi settori produttivi nell’industria e nei servizi. Dal momento che nel quadro dell’UME non era possibile farlo attraverso un riallineamento delle valute, l’unica strada era quella della svalutazione interna. In termini pratici, voleva dire smantellamento dello stato sociale, privatizzazione dei servizi e delle infrastrutture pubbliche, riduzione dei salari e della spesa sociale, concorrenza fiscale, attacco alla contrattazione collettiva, riduzione del peso dei sindacati e demonizzazione, o in alcuni casi licenziamento, dei dipendenti pubblici.
L’euro – Uno strumento a vantaggio del capitale finanziario
È importante sottolineare che nessuna di queste cose è accaduta a causa di difetti di costruzione imprevedibili: dal punto di vista di chi ha concepito tale costruzione in un’ottica neoliberista, l’euro ha funzionato bene. Non ha funzionato rispetto agli obiettivi di equilibrio economico tra gli stati membri, di crescita economica e di piena occupazione, ma è stato molto efficace nel distruggere i diritti del lavoro, il sistema di sicurezza sociale, il settore pubblico, la tassazione dei profitti e nell’imporre il salvataggio delle banche con I soldi pubblici.
Questo è il modo in cui l’euro funziona dal punto di vista politico: costringe chi lo adotta ad una concorrenza al ribasso, per la quale la posizione economica di ciascuno stato membro può migliorare soltanto adottando politiche che vanno contro l’interesse della maggioranza della popolazione e a beneficio del capitale internazionale. Crea una spirale di progressiva riduzione delle retribuzioni, delle pensioni, delle prestazioni sociali, dell’impiego pubblico, degli investimenti pubblici.
Come dimostrato chiaramente da quanto è accaduto in Grecia nell’estate 2015, la struttura di governo dell’eurozona non mostra alcuna apertura verso politiche che seguono il volere espresso democraticamente da una maggioranza di cittadini quando queste sono in contrasto con l’agenda neoliberista. Quando il governo guidato da Syriza ha provato a realizzare il suo programma – e persino dopo il mandato ricevuto con l’Oxi del referendum – la BCE ha usato le sue armi finanziarie per costringere il governo a capitolare e firmare il memorandum.
L’euro – Un progetto sbagliato che non è possibile correggere
Come è stato dimostrato ormai da un numero elevato di studiosi, l’eurozona non ha i requisiti per essere un’area monetaria funzionante, né possiamo aspettarci che li possa avere in futuro. Per funzionare, un’area monetaria come l’eurozona, con livelli di produttività e strutture economiche così diverse, necessiterebbe tra le altre cose di ingenti trasferimenti finanziari in grado di compensare gli squilibri economici. Stime attendibili mostrano che occorrerebbe redistribuire qualcosa come il 10% del Pil dalle economie più forti a quelle più deboli. Una passo del genere non solo non è realizzabile politicamente, è anche indesiderabile: come dimostrano tutti i precedenti nella stessa eurozona, i governi dei paesi finanziatori userebbero la loro posizione per influenzare le politiche nazionali nei paesi percettori dei finanziamenti, calpestando la democrazia. Negli anni più recenti abbiamo visto con quale rapidità un tale sistema possa minare la sovranità popolare, dividere I popoli europei e alimentare la xenofobia.
In definitiva, l’opzione di uno stato europeo democratico e federale che non rifletta le attuali disparità di potere tra gli stati membri richiederebbe una società civile europea che al momento non c’è, e che non può certo essere creata dall’alto.
Lexit – La strada per combattere efficacemente il neoliberismo e sostenere la democrazia
Sullo sfondo dell’allarmante perdita di diritti democratici, dello smantellamento dello stato sociale e della privatizzazione dei beni comuni, le forze di emancipazione presenti in Europa devono proporre un’alternativa praticabile e credibile, basata sull’esercizio della sovranità popolare, al corrente progetto autoritario di integrazione neoliberista. È per questo che occorre avanzare la proposta di una Lexit (left exit, uscita da sinistra) come strumento di rivendicazione democratica.
L’allarmante crescita delle forze di estrema destra nella maggior parte dei paesi dell’eurozona si spiega anche con la loro posizione contraria all’UE e al sistema di governo dell’euro. Le loro proposte politiche sono tuttavia fuorvianti: le forze anti-euro di destra, per esempio, lottano per maggiori controlli sull’immigrazione mentre non fanno alcun cenno alla mobilità incontrollata dei capitali da e verso quei paesi che perseguono politiche di compressione dei salari. Per queste forze sarebbe sufficiente fermare la libera circolazione delle persone in Europa e abbandonare l’euro, lasciando che le valute siano determinate dal libero operare dei mercati e dei movimenti speculativi: possiamo parlare a questo riguardo di “neoliberismo xenofobo”.
Se vogliamo evitare un tale scenario, abbiamo bisogno di una Lexit: un’alternativa internazionalista basata sulla sovranità popolare, sulla fraternità, sui diritti sociali e sulla difesa delle condizioni dei lavoratori e dei beni comuni.
L’insostenibilità dell’eurozona è un fatto oggettivo. Presto o tardi, si porrà una scelta tra alternative vie d’uscita dall’euro, verso destra o verso sinistra, con effetti molto diversi dal punto di vista sociale. Diciamo esplicitamente che l’obiettivo della Lexit è quello di sviluppare strategie di emancipazione di sinistra per superare l’euro e contrastare l’integrazione neoliberista. La discussione è già iniziata e ci sono diverse proposte sul tavolo: invitiamo tutti coloro che condividono l’idea della Lexit a unirsi a questa discussione e alla nostra iniziativa.
Primi firmatari
- Tariq Ali, author and filmmaker, UK
- Jorge Amar, Asociación por el pleno empleo y la estabilidad de precios, Spain
- Prof. em. Yangos Andreadis, Pantheion University, Greece
- Cristina Asensi, Democracia Real Ya and Money Sovereignty Commission, Spain
- Prof. Einar Braathen, Oslo and Akershus University College, Norway
- Prof. Lucio Baccaro, Université de Genève, Switzerland
- Gina Barstad, No to the EU and Socialist Left Party, Norway
- Luís Bernardo, Researcher, Portugal
- Simon Brezan, 4th Group of United Left, Slovenia
- Prof. Sergio Cesaratto, University of Siena, Italy
- Prof. Massimo D’Antoni, University of Siena, Italy
- Alfredo D’Attorre, MP Sinistra Italiana, Italy
- Fabio De Masi, MEP GUE/NGL, Germany
- Klaus Dräger, former staff of the GUE/NGL group in the EP, Germany
- Stefano Fassina, former Vice-Minister of Finance, MP Sinistra Italiana, Italy
- Prof. Scott Ferguson, University of South Florida, United States
- Prof. Heiner Flassbeck, Hamburg University and Makroskop, Germany
- Kenneth Haar, Corporate Europe Observatory, Denmark
- Idar Helle, De Facto, Norway
- Inge Höger, MP Die Linke, Germany
- Prof. Martin Höpner, Max Planck Institute for the Study of Societies, Germany
- Dr. Raoul Marc Jennar, Political scientist and author, France
- Dr. Lydia Krüger, Scientific Council of Attac, Germany
- Kris Kunst, Economy for the people, Germany
- Wilhelm Langthaler, Euroexit, Austria
- Prof. Costas Lapavitsas, SOAS University of London, UK
- Frédéric Lordon, CNRS, France
- Stuart Medina, Asociación por el pleno empleo y la estabilidad de precios, Spain
- Prof. William Mitchell, Director of Centre of Full Employment and Equity, University of Newcastle, Australia
- Joakim Møllersen, Attac and Radikal Portal, Norway
- Pedro Montes, Socialismo 21, Spain
- Prof. Andreas Nölke, Goethe University, Germany
- Albert F. Reiterer, Euroexit, Austria
- Dr. Paul Steinhardt, Makroskop, Germany
- Steffen Stierle, Attac and Eurexit, Germany
- Jose Sánchez, APEEP, Anti-TTIP Campaign, Attac, Spain
- Gunnar Skuli Armannsson, Attac, Iceland
- Petter Slaatrem Titland, Attac, Norway
- Dr. Andy Storey, University College Dublin, Ireland
- Prof. Wolfgang Streeck, Max Planck Institute for the Study of Societies, Germany
- Diosdano Toledano, Plataforma por la salida del euro, Spain
- Christophe Ventura, Memoire des luttes, France
- Peter Wahl, Weed e.V., Scientific Council of Attac, Germany
- Erik Wesselius, Corporate Europe Observatory, Netherlands
- Prof. Gennaro Zezza, Università di Cassino e del Lazio Meridionale, Italy
Alla vigilia dell’incontro pubblico organizzato da MMT Italia il 25 giugno, ci preme ribadire il nostro punto di vista, per condividerlo con gli attivisti che vorranno essere presenti.
Pensiamo che non ci sia modo di attuare la Costituzione restando all’interno dell’Unione Europea, e certamente cambiarla ci allontana in modo irreparabile da quel modello politico, sociale ed economico disegnato dalla nostra Carta.
MMT (Modern Money Theory, teoria della moneta moderna) è la teoria economica che fornisce un’interpretazione del mondo contemporaneo chiara e precisa, tanto da aver saputo predire con enorme anticipo tutto quello che ci saremmo trovati ad affrontare in Eurozona, dalla disoccupazione strutturale a due cifre, ai fallimenti bancari, alla deflazione, alla distruzione del welfare, alla competizione insostenibile per alcune aree e gli operatori economici che non hanno un santo un paradiso, leggi un lobbista in commissione.
La stessa MMT fornisce gli strumenti di finanza funzionale per l’interesse pubblico, di comprensione dei bilanci statali settoriali per il perseguimento di obiettivi economici, sociali e politici a vantaggio del 99% dei cittadini, strumenti capaci di far fronte alle sfide della globalizzazione e di garantire la Piena Occupazione e la stabilità dei prezzi. E’ la teoria economica che più di altre corrisponde ai principi espressi dalla Carta Costituzionale, in grado di difenderla e attuarla come mai fu fatto prima. Non possiamo ignorare che da subito, in questa Repubblica, furono applicate politiche economiche liberiste, che, in contrasto con i principi stessi espressi nel Titolo III, ne impedirono di fatto la realizzazione.
L’integrazione europea ha ulteriormente aggravato la situazione, essendo guidata da parametri economici del tutto fuorvianti da quel progetto sociale che ci eravamo prefissi e che è, ricordiamolo, il patto su cui si fonda l’appartenenza a questo Stato, il dovere di adempiere alle sue leggi e i pieni diritti che ne devono derivare. Lo Stato non è stato superato. Non c’è nessun’altra entità giuridica che abbia vera legittimità a invalidarlo.
Per questo motivo, con l’incontro di Roma “Non c’è democrazia politica senza democrazia economica”, MMT Italia intende aprire un percorso di confronto sia con personalità e associazioni portatrici di competenze e conoscenze specifiche e affini, sia a quei partiti politici o movimenti i quali avranno poi il compito di tradurre in azione politica concreta il disegno idealistico sia della Teoria della Moneta Moderna che la nostra Carta Costituzionale.
Aspettiamo tutti gli attivisti italiani a Roma, presso il largo Dino Frisullo, “Città dell’Altra Economia”, sabato 25 giugno a partire dalle 14.30.
Saranno presenti come relatori, nell’ordine, il professor Sergio Cesaratto, il professor Stefano Sylos Labini, e seguirà poi dibattito con l’onorevole Alfredo D’Attorre (Sinistra Italiana), Antonio Maria Rinaldi (Alternativa per l’Italia) e Alfonso Gianni (Comitato per il No al Referendum costituzionale).
Di seguito la sintesi scritta dai nostri Mario Volpi e Filippo Abbate a seguito del convegno “Uscendo dall’Euro” che si è svolto a Castiglione del Lago, in provincia di Perugia, lo scorso 18 luglio. Oltre ai due componenti della Me-Mmt erano presenti, come relatori e per favorire il contraddittorio, il professor Sergio Cesaratto e il professor Ernesto Screpanti, entrambi dell’Università di Pisa, Moreno Pasquini e Leonardo Mazzei dell’associazione “Ora Costituente”.
L’unico momento in cui il tasso di cambio della Nuova Lira (in seguito NL) sarà fisso è all’inizio del processo; tale cambio sarà di 1 ad 1, quindi 1 euro varrà come 1 NL. Da quel momento in poi il tasso di cambio sarà flessibile e quindi libero di fluttuare. Ciò significa che la BCI potrà comunque intervenire con operazioni di politica monetaria per difendere il valore della NL da eventuali apprezzamenti o deprezzamenti nell’interesse pubblico ma non vincolerà il suo valore a quello di altre valute internazionali attraverso accordi di cambio fisso o semifisso.
Arriva il giorno X:
Lo Stato pagherà stipendi pubblici, commesse pubbliche, pensioni e trasferimenti in NL. Gli stipendi verranno convertiti alla pari e quindi uno stipendio pubblico annuo di 30.000 euro diverrebbe di 30.000 NL.
Lo Stato allo stesso tempo accetterà come valuta per l’estinzione degli obblighi fiscali soltanto le NL (soltanto le NL verranno accettate come mezzo di pagamento per le tasse). Ciò determinerà una crescente domanda di NL anche nel settore privato – dipendenti privati ed imprese chiederanno di essere pagati in NL perché soltanto con queste potranno pagare le tasse. La crescente domanda di NL in una fase in cui questa sarà ancora scarsa nel sistema difenderà il valore della valuta.
Se ricordate, quando abbiamo cambiato valuta ed abbiamo adottato l’euro, cosa è successo al settore privato? Non eravamo obbligati a pagare stipendi in euro, avremmo potuto pagarli in altra valuta (dollari, yen); ma avendo ridenominato tutte le tasse in euro, siamo stati di fatto costretti a spendere e riscuotere in euro. Tutta la monetizzazione del paese in NL potrebbe avvenire nella stessa maniera.
Veniamo ai depositi ed ai prestiti. La nostra proposta prevede di:
– Lasciare i depositi bancari esistenti in euro che saranno convertiti soltanto su richiesta del cittadino. Quindi se avete soldi in banca nessuno li denominerà in NL; se avete dei soldi in banca non sarete costretti a convertirli in NL; ma se volete potrete andare presso la banca o altri operatori e farvi cambiare gli euro in NL a prezzi di mercato
– Lasciare i prestiti bancari esistenti in euro che saranno denominati in NL soltanto su richiesta del cittadino – vale lo stesso discorso che abbiamo fatto per i depositi. Ovviamente da oggi i nuovi prestiti erogati dal settore bancario saranno in NL
Nel caso in cui i cittadini richiedano la conversione in NL dei depositi e dei prestiti bancari, il governo obbligherà le banche a soddisfare le richieste dei clienti in tempi brevi, al tasso di cambio vigente, attraverso leggi, regolamenti e controlli.
Quanto maggiori saranno le conversioni spontanee da euro a NL tanto più l’operazione avrà successo ed è importante tener presente quali siano gli incentivi a convertire i depositi esistenti:
– Il fatto che tasse, multe, imposte si possono pagare soltanto in NL renderà necessaria la conversione di almeno parte dei risparmi
– Il fatto che lo Stato spenderà in NL determinerà l’apertura di depositi in NL e ciò incentiverà anche la conversione di parte dei depositi in euro
– il fatto che soltanto i depositi in NL saranno garantiti illimitatamente dalla BCI mentre quelli in euro saranno garantiti nei limiti delle norme di legge vigenti
– il fatto che i depositi in NL saranno più economici di quelli in euro (poichè questi ultimi saranno equiparati a depositi in valuta estera e quindi saranno più costosi) sarà un ulteriore incentivo alla conversione
A nostro parere denominare immediatamente depositi e prestiti in NL non è prudente per almeno 8 motivi che elenchiamo di seguito:
1) La ridenominazione immediata dei depositi in NL incentiverebbe la corsa agli sportelli e le fughe di capitali; i cittadini consapevoli che il governo denominerà i depositi bancari in NL, nel timore che la NL si svaluterà rispetto all’euro, potrebbero ritirare contanti o potrebbero spostare presso banche estere i loro risparmi in euro. Questo comportamento, se effettuato in massa, genererebbe problemi al settore bancario (vedere caso greco). Lasciando la scelta di convertire i propri risparmi al cittadino, si ridurrebbero quantomeno tali comportamenti.
2) La ridenominazione immediata dei depositi in NL incentiverebbe il deprezzamento della NL. Cerchiamo di comprendere un meccanismo importante: se noi in massa vendiamo NL per comprare euro, la NL di deprezzerà e l’euro si apprezzerà. Viceversa, se vendiamo euro per comprare NL quest’ultima si apprezzerà e l’euro si deprezzerà. Supponiamo che il 30% degli italiani preferiscano detenere i propri risparmi in NL e l’altro 70% invece in euro (è solo un’ ipotesi ma il ragionamento vale anche cambiando le percentuali). In seguito alla ridenominazione immediata, il 70% che preferisce detenere risparmi in euro potrebbe riconvertire i propri risparmi di nuovo in euro – vendendo NL – generando così il deprezzamento della NL. Se i depositi invece fossero lasciati in euro potrebbe accadere che il 70% (che preferisce detenere i depositi in euro) non porrà in essere alcuna azione mentre il 30% di italiani che vogliono NL – perché devono pagarci le tasse o perché preferiscono detenere depositi nella nuova valuta perché garantita dallo Stato – potrebbero convertire euro in NL sostenendo così il valore della nuova valuta. Tenete inoltre presente che se la NL si apprezza la BCI sarà sempre in grado di contenerne l’ apprezzamento; mentre se la NL si deprezza repentinamente, la BCI potrebbe non essere in grado di contenerne il deprezzamento. Lasciare i depositi in euro sarebbe quindi utile per sostenere il valore della nuova valuta evitando una svalutazione repentina all’inizio del processo e favorendo un deprezzamento graduale e gestibile.
3) Con la ridenominazione immediata dei depositi la NL sarà subito abbondante nel sistema e ciò potrebbe provocare ulteriori pressioni svalutative. Nel caso contrario invece la nuova valuta sarà scarsa e la BCI sarebbe l’unico soggetto ad avere NL da vendere (quantomeno nella fase iniziale); ciò darà alla BCI un certo grado di potere nell’influenzare il tasso di cambio. Sarà soltanto la BCI a disporre di NL e sarà presumibilmente lei a decidere quanti euro ci vogliono per ottenere una unità della nuova valuta, quanto meno inizialmente. Tenete inoltre presente che, oltre alla domanda interna di NL, ci sarà un’ immediata e crescente domanda anche da parte degli operatori finanziari (dealers) che necessitano della nuova valuta per soddisfare le richieste internazionali della stessa (cittadini esteri che vorranno venire in vacanza in Italia, cittadini ed imprese estere che vorranno acquistare merci italiane o che vorranno investire nel nostro paese). La domanda estera si aggiungerà a quella interna e ne sosterrà il valore. In seguito, man mano che l’afflusso derivante dalla domanda di NL diminuisce e le NL aumentano nel sistema in seguito alle conversioni spontanee dei soggetti economici, si potrà verificare un morbido e graduale deprezzamento della NL.
4) Lasciare i depositi in euro permetterebbe alla BCI di accumulare euro man mano che soggetti economici, interni ed esteri, venderanno euro per ottenere NL. La BCI infatti, sarebbe l’unico soggetto economico a poter soddisfare la domanda iniziale di NL potendo così accumulare euro. Gli euro così accumulati potrebbero essere utilizzati dallo Stato per far fronte alle sue passività denominate in euro. Proprio in conseguenza a ciò proponiamo di non ridenominare, quantomeno inizialmente, i TDS esistenti ed attualmente in circolazione. Come detto in precedenza, la forte domanda di NL da parte di soggetti interni ed esteri, non solo ci difenderebbe da una violenta svalutazione iniziale, ma consentirebbe allo Stato di accumulare gli euro necessari a quantomeno ridurre il debito pubblico in euro. Le prime scadenze dei titoli potrebbero essere onorate in tal modo ed in un secondo momento, quando l’afflusso di euro calerà d’intensità, si prenderanno le giuste decisioni nell’interesse pubblico. La denominazione dei depositi in NL al momento dell’uscita dall’euro, non consentirebbe alla BCI di accumulare euro e si perderebbe tale opportunità.
5) Lasciare i depositi in euro permetterebbe una transizione graduale che fornirebbe il tempo necessario per le modifiche degli sportelli automatici e darebbe modo alle NL di entrare nel circuito economico evitando il rischio di penuria di liquidità che invece si potrebbe verificare nel caso in cui, dalla notte al giorno successivo, tutto venisse immediatamente denominato in NL.
6) Con la ridenominazione iniziale dei depositi si presterebbe il fianco ai media che bombarderanno con l’assioma ” se usciamo dall’euro la Nuova Lira si svaluterà enormemente”; in effetti le conseguenze di tale scelta daranno ragione ai media nel senso che la denominazione immediata in NL ne provocherà una svalutazione repentina per i motivi argomentati precedentemente.
7) I cittadini, già vessati dalla crisi e dalle politiche di austerità dei precedenti governi, vedrebbero la ridenominazione iniziale dei depositi in NL come l’ennesima coercizione del governo a loro spese; ciò farebbe perdere consenso politico al governo che si appresterà a compiere questo importante processo. Preferiamo non entrare in riflessioni di natura politica ma crediamo che questo aspetto sia di enorme importanza e non debba essere assolutamente sottovalutato.
8) La ridenominazione immediata dei depositi è una scelta NON REVERSIBILE. Una volta fatta non si torna più indietro. Lasciare i depositi in euro, non solo presenta i vantaggi precedentemente esposti, ma mantiene la possibilità per il governo di poterli convertire in un secondo momento.
Secondo la maggior parte degli economisti, lasciare i depositi in euro sarebbe sconveniente o addirittura impossibile. Ci teniamo a precisare che entrambe le opzioni consentirebbero allo Stato di perseguire politiche anticicliche e quindi di espandere i deficit pubblici nell’interesse dei cittadini. Riconosciamo inoltre che la ridenominazione immediata è per alcuni aspetti più semplice mentre lasciare i depositi in euro richiede un costante monitoraggio delle situazioni che si verranno a creare per poter elaborare di volta in volta la scelta migliore. Infine siamo profondamente consapevoli delle criticità che si potrebbero generare perseguendo la soluzione da noi proposta. Tuttavia siamo altrettanto convinti che lasciare depositi in euro sia più pratico, più vantaggioso e meno traumatico per il sistema economico che comunque si troverebbe a vivere un processo decisamente delicato come quello della sostituzione della valuta di Stato ed, in ogni caso, rimarrebbe sempre l’opportunità di ridenominarli in NL se ciò diventasse vantaggioso o necessario.
NB
· Prima dell’inizio del processo di transizione sopra descritto, cioè nel momento in cui il governo neoeletto che è intenzionato ad uscire dall’euro salirà al potere, potrebbe essere necessario introdurre dei limiti ai quantitativi di prelievi mensili in euro onde evitare la situazione che si è venuta a creare in Grecia. Il limite può essere individuato intorno ai 2.000,00 euro al mese per singolo c/c. Sempre nel periodo precedente al processo di transizione, potrebbe essere vantaggioso accompagnare questa limitazione con l’impossibilità da parte dei correntisti di spostare i propri risparmi su c/c esteri.
· Durante la fase di transizione potrebbe essere vantaggioso impedire il prelievo in contanti di euro: il cittadino potrebbe in ogni caso effettuare pagamenti elettronici in euro ma se necessita di contante potrà prelevare soltanto il controvalore (tasso di cambio vigente) in NL.
· Man mano che l’afflusso di euro alla BCI (in seguito alla domanda di NL parte dei soggetti economici interni ed esteri) diminuisce determinando un aumento di NL nel sistema, la nuova valuta inizierebbe a deprezzarsi. Tale deprezzamento consentirebbe ai cittadini di ottenere più NL per lo stesso controvalore in euro. Ciò costituirebbe un ulteriore incentivo per la conversione dei depositi ancora rimasti in euro».
Assolutamente da non perdere dunque l’incontro previsto sabato prossimo, 18 luglio, a Castiglione del Lago, in Provincia di Perugia. Doppia sessione, mattutina (10-13) e pomeridiana (14-17.30). Tema dell’incontro: “Uscendo dall’Euro”. Relatori: Moreno Pasquinelli e Leonardo Mazzei di “Ora Costituente”, i professori dell’Università di Siena Sergio Cesaratto e Ernesto Sacrepanti, e i referenti della Mosler Economics Mmt Mario Volpi e Filippo Abbate.
Il video integrale del confronto tra Mosler e Cesaratto con le domande del pubblico.
La parte del dibattito avvenuto all’università di Siena prima delle domande del pubblico
Gli scatti di Matteo Bernabè relativi al confronto tra il padre della Me-Mmt e l’economista italiano Sergio Cesaratto.