Pier Carlo Padoan è stato l’unico nome imposto dall’ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a Matteo Renzi quando, molto sereno qual era, prese il posto di Enrico Letta alla Presidenza del Consiglio. Potete mettere un socialista duro e puro al Lavoro, un fascista agli Interni: ma non ci è consentito di avere un Ministro dell’Economia che non sia un ortodosso sostenitore del liberismo. Per prevenire eventuali scapocciate di Renzi, arrivate ma con anni di ritardo – praticamente adesso, a danni già belli che fatti, e con proposte di soluzioni che non risolvono i problemi – serviva un cane da guardia.
Tale fu Pier Carlo.
Il quale è dunque una sorta di tecnico che risponde alla Commissione Europea e ai cosiddetti mercati (un gruppo di grandissime banche le quali acquistano i titoli di stato italiano, oppure no) e vigila affinché la Repubblica Italiana si comporti esattamente come un privato. Dunque che la Repubblica Italiana garantisca un profitto che vale come salvacondotto per la sottoscrizione di nuovi prestiti.
Il sistema è noto: se uno Stato non emette più moneta, non è più uno Stato ma una entità amministrativa assimilabile ad una Regione o ad un Comune. Per garantire il suo funzionamento, dunque, deve garantire un profitto, esattamente come una famiglia o una impresa che si rechi in banca per avere un prestito. Lo Stato ottiene un profitto con tasse superiori alla spesa pubblica: e in Italia avviene dal 1992, quasi ininterrottamente. La Repubblica Italiana, dunque, è stata privatizzata e le politiche economiche, e dunque anche quelle che ne conseguono (fondi per la cultura, per iniziative sociali, per investimenti, per la ricostruzione post-terremoto) non possono essere decise in autonomia da governo e parlamento. Così si colonizzano le popolazioni moderne nell’Europa (e nel mondo) dominato dalla comunicazione e dal politicamente corretto. Altrove, si possono tollerale uccisioni, bombe e dittature militari. Qui le cose vanno fatte con più acutezza. Sotto al guanto bianco vi è una violenza camuffata da buona educazione.
Pier Carlo Padoan è l’uomo chiamato a garantire tutto questo.
L’ultima prova ce l’abbiamo con una sua dichiarazione, non nuova, e non originale: “Ci sono buone ragioni per aumentare l’Iva e tagliare le tasse sul lavoro“. Non originale perché nelle abituali letterine che giungono a Roma dalla Commissione Europea o magari suggerimenti di politica economica di organismi come l’Ocse, proprio di questo si parla. Aumentare l’Iva, ovvero la tassa sui consumi, e ridurre di pari importo le tasse sul lavoro. A che pro?
Si parla di un aumento dell’Iva dal 10 al 13% e dal 22 al 25%, come promesso nell’ultimo Documento di Economia e Finanza ai mercati e a Bruxelles, nel caso a settembre non si provveda con altri tagli alla spesa pubblica o diversa tassazione. La colonia, si diceva.
Ecco perché Padoan, la Ue, l’Ocse e via discorrendo chiedono questo: se per 25 anni io tasso più di quanto spendo, la quantità di moneta presente nell’economia nazionale si riduce giocoforza anno dopo anno. E se la penuria di moneta genera una crisi per la quale anche il sistema bancario non è più in grado di concedere prestiti sicuri a famiglie e imprese, la siccità monetaria rischia di bloccare del tutto l’economia nazionale.
Ho, però, una via d’uscita: fare in modo che dall’estero la moneta in entrata (grazie alle esportazioni) sia maggiore di quella in uscita (con le importazioni). Giochino da due più due al quale si è prestato con perfezione Mario Monti e che è stato poi seguito dai governi seguenti. E veniamo nel dettaglio come l’aumento dell’Iva e la riduzione delle imposte sul lavoro si presti a questo gioco, senza però creare maggiore ricchezza.
PIÙ IVA, MENO CONSUMI L’aumento dell’Iva determina l’aumento dei costi dei prodotti. A parità di salari, stipendi e utili d’impresa, questo significa che si acquisteranno meno prodotti. Se il costo di un dolce passa da 2 euro a 2,4 euro (sono numeri esemplificativi), con dieci euro di stipendio prima ne comprerò 5, poi 4.
PIÙ IVA, MENO CONSUMI STRANIERI (importazioni) L’Iva si applica ai beni importati, che quindi saranno più costosi e saranno acquistati meno.
PIÙ IVA, MA NON SULLE ESPORTAZIONI Sui beni esportati invece grava l’Iva applicata nei paesi importatori. Non risentono quindi dell’aumento dell’Iva in Italia per cui le esportazioni non subiscono flessioni. Quindi, per ora, abbiamo Diminuzione consumi, diminuzione importazioni, stabilità esportazioni (fatte salve altre variabili).
MENO TASSE SUL LAVORO, UN PO’ PIÙ OCCUPAZIONE La riduzione del cosiddetto cuneo fiscale aumenta la propensione all‘assunzione di lavoratori o, nel caso in cui questo non sia necessario (si pensi ad una piccola azienda che non ha bisogno di nuove assunzioni) aumenta il profitto aziendale o eventuali investimenti della quota detassata. A seconda di come si sviluppa in concreto la ricaduta della detassazione del lavoro, si hanno conseguenze diverse nell’economia reale. L’aumento degli occupati aumenta i consumi; l’aumento del profitto aziendale può aumentare i consumi ma in maniera meno diretta, potendo il profitto extra essere impiegato in prodotti finanziari, speso per vacanze all’estero, eccetera. I maggiori investimenti aumentano la produttività aziendale e generano un aumento dei consumi.
MENO TASSE SUL LAVORO, PIÙ ESPORTAZIONI Per le aziende si registra una riduzione di un costo di produzione, così il prezzo finale del prodotto scende. Se a livello nazionale questa diminuzione è compensata dall’aumento dell’Iva, a Berlino o a Mosca il prodotto italiano diventa più concorrenziale.
PIÙ LAVORATORI MA MENO CONSUMI Così abbiamo un incremento delle persone impiegate ma, quasi sicuramente, una contrazione dei consumi, o, nella migliore delle ipotesi, un gioco a somma zero: lavorano più persone ma il maggior reddito che viene determinato dalle nuove assunzioni non consente un aumento dei consumi a causa dell’aumento dell’Iva. Probabilmente il gioco sarà a somma negativa, proprio perché una parte delle detrazioni sul lavoro diventeranno risparmio o spesa all’estero. Allora perché?
L’aumento dell’Iva è una classica politica deflazionistica, contrariamente a quanto potrebbe sembrare superficialmente. Così facendo lo Stato ritira dall’economia reale una quota maggiore di moneta, provocando un incremento della siccità, non, come potrebbe sembrare, una inondazione di moneta da spendere.
L’aumento dell’Iva dunque più che compensa la spinta mini-inflazionistica derivante dall’aumento dell’occupazione e dal reinvestimento della quota detassata. L’aumento delle esportazioni conseguente supera invece la contrazione delle importazioni. In questo modo, nonostante il perseguimento delle politiche interne di austerità, l’economia nazionale continua a sopravvivere con un’altra boccata d’acqua (moneta).
Soprattutto all’interno di un regime di cambi fissi come l’euro le nazioni vincenti a livello economico sono quelle che praticano con più efficienza la deflazione, poiché in assenza di fluttuazioni del cambio e a parità di qualità dei prodotti, viene acquistato quello prodotto nella nazione dove l’inflazione è più bassa.
Il sogno finale è avere un aumento dei lavoratori i quali però non beneficeranno dei prodotti del loro lavoro, destinati ai mercati dei nuovi ricchi stranieri. Da produci consuma crepa, dunque, si virerà ad un produci non consuma crepa. Si dice 2.0, si dice post-modernità. Si dice Pier Carlo Padoan.
Articoli
fonte: http://sienanews.it/in-evidenza/caro-spread-ti-scrivo/
Oggi tutti sanno che il termine spread indica il differenziale tra il rendimento dei titoli di Stato decennali italiani (BTP) e i Bund tedeschi, ritenuti più affidabili. E’ curioso, tuttavia, che prima che la grande banca d’affari americana Lehman Brothers dichiarasse fallimento, lo spread dei titoli di Stato italiani non avesse mai superato i 30-40 punti base. Quel fallimento innescò la corsa, tanto che nel gennaio del 2009 lo spread toccava i 170 punti.
In realtà erano appena iniziati i tempi delle “nuove” crisi; la Grecia, non una banca, ma uno Stato, mostrava fragilità finanziaria. Così montava la preoccupazione del contagio di Italia, Spagna, Irlanda e Portogallo e, di diretta conseguenza, crescevano gli spread dei paesi periferici dell’Eurozona. Per la prima volta si metteva in discussione la tenuta dell’area euro.
Il 9 novembre del 2011 lo spread italiano toccò il massimo record, ancora oggi mai raggiunto, di 574 punti base. Conseguenza: cambio di Governo e riforme lacrime e sangue per noi italiani. Ne seguì, per il caro spread, un andamento altalenante, poi di nuovo il livello sopra i 500 punti – prima dell’intervento di Draghi e i programmi della BCE per sostenere la moneta unica – e, dopo, l’abbassamento, tanto da non sentirne quasi più parlare.
Finché il ministro dell’Economia Padoan, nel corso di un’audizione sulla legge di bilancio davanti alle commissioni Bilancio di Camera e Senato dichiara che lo spread italiano ha invertito la tendenza e che ciò dipende dai timori nel mercato che si interrompi l’azione di politica economica del Governo. Di fatto, dopo mesi di discesa, lo spread italiano in chiusura della scorsa settimana sale e raggiunge 160 punti. Inversione di tendenza? Sono diverse le partite sul piatto: l’aumento del deficit e le risorse necessarie per la manovra finanziaria; le politiche di austerity che non sembrano aver giovato ai dati economici dei paesi interessati e soprattutto il referendum costituzionale.
L’interrogativo ancora in sospeso è questo: come mai il rapporto debito pubblico su Pil nel 2011, anno di massima rilevazione dello spread era al 120,1% e quello previsionale della Commissione UE del 2016 è pari al 132,7%?
La solvibilità del nostro Paese è migliorata anche se il debito pubblico è aumentato? Quella variabile che dovrebbe essere influenzata prevalentemente da dati economici sembra invece essere strettamente legata alla politica. Lo spread italiano diventa un termometro più o meno sensibile rispetto alle necessità politiche da conciliare con le direttive europee. Anche la disoccupazione pari all’8,9% nel 2011 (dato allora più alto dal 2004) è ormai un ricordo nei confronti dell’attuale rilevazione a due cifre (11,7% ultimo mese rilevazione Istat). Ma il ministro dell’Economia valuta “la discesa dello spread in questi 30 mesi come l’apprezzamento, tra le altre cose, per la politica economica”.
Caro spread, chissà se sentiremo ancora parlare di te.
Analisi del Def. Nel 2016 lo Stato Italiano, per ogni 100 lire di tasse incassate, ne ha spese 98,5 in servizi come sanità o investimenti come strade, nel 2017 su 100 lire di tasse la spesa sarà di 98,3 (e ne promette 96,8 nel 2019). Come fosse una gara di poker, nel 2016 lo Stato avrebbe vinto qualcosa come 25,7 miliardi. Chi perde? Lavoratori e imprese.
Un incredibile articolo sul Corriere.it, in risposta ad un altro commento incomprensibile dell’ex direttore Paolo Mieli: il ministro dell’Economia contemporaneamente rivendica il taglio della spesa e spiega che la dinamica del debito peggiora proprio a causa di quei tagli. E per il futuro: “Riduciamo il deficit e aumentiamo gli investimenti”. Dio salvi l’Italia
Dietro la propaganda: nel 2015 le tasse saranno di 788 miliardi con un incremento di 11 miliardi rispetto al 2014. E per il 2016 tasse come minimo per 804 miliardi, 26 miliardi in più che nel 2015. Il deficit al 2,2% è il più “austero” degli ultimi anni, e l’avanzo primario continua ad aumentare
Pressione fiscale identica a quella del 2014, poi nel 2016 picco con oltre 40 miliardi di tasse in più già garantite ai mercati finanziari. Spesa pubblica -3% in 4 anni. Avanzi primari previsti da record. Disoccupazione sempre a due cifre. Ma il Presidente del Consiglio pensa di andare avanti con le parole: “Nel 2015 riduciamo le tasse per 18 miliardi più i 3 di clausole che eliminiamo”
Ci sarà modo di analizzare, una volta che i dati saranno messi nero su bianco e firmati dal Ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan e dal Presidente del Consiglio Matteo Renzi, l’incongruità tra dichiarazioni alla stampa italiana (che passa tutto senza mai alzare il ditino) e numeri reali presentati alla Commissione Europea.
Stiamo parlando del Documento Economia e Finanza 2015, di cui oggi, 7 aprile, si occupa il Consiglio dei Ministri.
Purtroppo le bugie, da qualche tempo, hanno le gambe lunghissime.
Renzi, fonte Il Sole 24 Ore: “Nel Def «non ci sono tagli e non ci sono aumenti della tasse: so che non ci siete abituati, ma da quando siamo al governo abbiamo operato una riduzione costante della pressione fiscale»”. Nella Nota di Aggiornamento del Def, dell’ottobre 2014, si è previsto un aumento delle tasse da 786 nel 2014 a 854 nel 2018, con una pressione fiscale record nel 2016, con il 43,6% sul Pil, ben superiore al 43,3% del 2014. Il documento è stato firmato anche da Renzi, che, evidentemente, o non legge ciò che firma, o ha preoccupanti vuoti di memoria, o mente ben sapendolo.
Si tenga conto che poi la Commissione Europea ha inasprito il documento dell’ottobre scorso, riducendo il deficit dal 2,9%, chiesto da Renzi, al 2,6%. Quindi i dati sotto mostrati sono leggermente più positivi di quanto poi deciso definitivamente.
Padoan spiega che “il Pil previsto per il prossimo triennio è quindi di +0,7 nel 2015, di +1,4 nel 2016 e di +1,5 nel 2017. Sul fronte dell’indebitamento il rapporto deficit-pil si dovrebbe attestare al 2,6% nel 2015, all’1,8% nel 2016 e all’1,7% nel 2017”.
Il punto interessante è che la prosopopea della “ripresa”, delle “riforme”, del “taglio delle tasse”, è identica a quella di un anno fa, e anche allora i numeri stimati erano identici a quelli di oggi, con l’aggravante che le previsioni di un anno fa sono state tutte errate e vengono rinviate ad oggi, nella speranza che, una volta o l’altra, ci si colga (il 2014 si è chiuso con una recessione dello 0,4% contro una stima di crescita, nell’aprile 2014, dello 0,8%: un errorino di una ventina di miliardi in otto mesi).
Non si capisce perché affidarsi agli stessi attori e alle stesse politiche (quelle degli avanzi primari finanziati dalle tasse di famiglie e imprese) che negli ultimi 20 anni hanno distrutto l’Italia.
La Legge di Stabilità “espansiva” di Renzi e Padoan ha inserito delle clausole che impongono l’aumento automatico dell’imposta sui consumi nel caso non si raggiungano gli obiettivi del pareggio di bilancio. Così l’aliquota al 10% rischia di arrivare al 13% e quella al 22% (due anni fa al 20) fino al 25,5%
I media italiani tutti affermano che l’attuale presidente del consiglio ha allargato i cordoni della borsa. Invece se si fosse attenuto ai dati del predecessore, avrebbe fruito di 6 miliardi per taglio delle tasse, istruzione, servizi, investimenti. Lo dicono le cifre ufficiali. Ma tanto è inutile ragionare di cose serie: perdi in partenza
I 15 miliardi di taglio della spesa pubblica comporterebbero un effetto recessivo stimabile in 24 miliardi di Pil, mentre il taglio delle tasse per 18 miliardi non riuscirebbe a compensarlo: “Come sempre è una previsione a spanne, ma da 4 anni ci azzecchiamo”