Fonte: Siena News
di Maria Luisa Visone
L’armonizzazione del nostro sistema tributario con quello degli altri Paesi aderenti alla Comunità Economica Europea avviene negli anni ’70, con l’introduzione dell’IVA. Tassazione omogenea sugli scambi di beni e servizi che si traduce in una forma unica di prelievo sui consumi. Dal 1973 ad oggi l’aliquota ordinaria IVA è aumentata per ben 9 volte. Eppure non sempre all’aumento è corrisposto un maggior gettito fiscale nelle casse dello Stato.
Commercianti, artigiani, imprenditori, professionisti alle prese con una spirale che racconta sempre la stessa storia: minori consumi delle famiglie. Inevitabilmente l’aumento del prelievo indiretto si rifletterà sui prezzi e, quindi, in un minor potere di acquisto. Ma se le famiglie consumeranno meno, diminuirà la produzione di beni e servizi e, se diminuirà significa che ci sarà bisogno di meno lavoratori. Quindi meno lavoro corrisponderà a meno reddito nelle tasche degli italiani. Ancora una volta da una parte ci sono gli effetti sull’economia reale, dall’altra l’andamento del rapporto debito/PIL. Qualcosa non mi quadra. Il PIL è al denominatore; per ridurre il rapporto il PIL deve aumentare. Però se anche non cresce, ma diminuisce il debito, che sta al numeratore, i conti potrebbero tornare.
Tuttavia, per diminuire il debito occorre tagliare la spesa pubblica, che è una componente del PIL; quindi scende il debito, ma diminuisce anche il PIL e allora siamo alle solite: se il PIL non cresce non se ne esce.
L’altro aspetto è la percezione di chi nel mercato ci vive e su questo non ci sono dubbi: si registra un peggioramento del clima di fiducia di consumatori e imprese nel mese di maggio (da 107,4 a 105,4, consumatori e da 106,8 a 106,2 imprese – Istat). L’aspettativa che la crisi sia superata e che finalmente si stia invertendo la tendenza in positivo non c’è. Come può tornare con la sterilizzazione dell’Iva?
In pratica all’articolo 9 del Decreto Legge 50/2017 (manovrina correttiva) non si disinnescano le clausole di salvaguardia dell’Iva che scatterebbero nel 2018. Semplicemente, con la nuova previsione normativa, dal 1° gennaio 2018 l’aliquota ridotta del 10% passa all’11,5% per salire poi al 12% nel 2019 e al 13% nel 2020. L’aliquota ordinaria, invece, sale al 25% nel 2018, poi nel 2019 diventa 25,4%; nel 2020 24,9% e nel 2021 di nuovo 25%.
Insomma, per evitare ciò il Governo deve trovare soldi da qualche altra parte. Le strade prospettate sono tagli o nuove tasse, dal momento che l’impegno con Bruxelles è ridurre il deficit strutturale per portarlo vicino allo zero. Il problema è che si continuano a tartassare categorie che sono la linfa per la ripresa economica. Non finirà la richiesta di mettere a posto le finanze pubbliche nel nome dell’unione monetaria.
E l’entrata del Fiscal Compact a gennaio 2019 si avvicina. Per quella data le regole da rispettare saranno ancora più rigide. L’ironia è che l’inventore della formula del 3% ha dichiarato candidamente che tale numero è stato deciso in meno di un’ora, senza alcuna base teorico-scientifica.
Guardando il nostro Paese, in fondo alla classifica della crescita, io credo che l’unica parola d’ordine dovrebbe essere ridurre le tasse o aumentare la spesa e, non, il contrario. Che in una parola vuol dire più deficit.
Il passato ha già dimostrato che diversamente non funzionerà.
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Pier Carlo Padoan è stato l’unico nome imposto dall’ex Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano a Matteo Renzi quando, molto sereno qual era, prese il posto di Enrico Letta alla Presidenza del Consiglio. Potete mettere un socialista duro e puro al Lavoro, un fascista agli Interni: ma non ci è consentito di avere un Ministro dell’Economia che non sia un ortodosso sostenitore del liberismo. Per prevenire eventuali scapocciate di Renzi, arrivate ma con anni di ritardo – praticamente adesso, a danni già belli che fatti, e con proposte di soluzioni che non risolvono i problemi – serviva un cane da guardia.
Tale fu Pier Carlo.
Il quale è dunque una sorta di tecnico che risponde alla Commissione Europea e ai cosiddetti mercati (un gruppo di grandissime banche le quali acquistano i titoli di stato italiano, oppure no) e vigila affinché la Repubblica Italiana si comporti esattamente come un privato. Dunque che la Repubblica Italiana garantisca un profitto che vale come salvacondotto per la sottoscrizione di nuovi prestiti.
Il sistema è noto: se uno Stato non emette più moneta, non è più uno Stato ma una entità amministrativa assimilabile ad una Regione o ad un Comune. Per garantire il suo funzionamento, dunque, deve garantire un profitto, esattamente come una famiglia o una impresa che si rechi in banca per avere un prestito. Lo Stato ottiene un profitto con tasse superiori alla spesa pubblica: e in Italia avviene dal 1992, quasi ininterrottamente. La Repubblica Italiana, dunque, è stata privatizzata e le politiche economiche, e dunque anche quelle che ne conseguono (fondi per la cultura, per iniziative sociali, per investimenti, per la ricostruzione post-terremoto) non possono essere decise in autonomia da governo e parlamento. Così si colonizzano le popolazioni moderne nell’Europa (e nel mondo) dominato dalla comunicazione e dal politicamente corretto. Altrove, si possono tollerale uccisioni, bombe e dittature militari. Qui le cose vanno fatte con più acutezza. Sotto al guanto bianco vi è una violenza camuffata da buona educazione.
Pier Carlo Padoan è l’uomo chiamato a garantire tutto questo.
L’ultima prova ce l’abbiamo con una sua dichiarazione, non nuova, e non originale: “Ci sono buone ragioni per aumentare l’Iva e tagliare le tasse sul lavoro“. Non originale perché nelle abituali letterine che giungono a Roma dalla Commissione Europea o magari suggerimenti di politica economica di organismi come l’Ocse, proprio di questo si parla. Aumentare l’Iva, ovvero la tassa sui consumi, e ridurre di pari importo le tasse sul lavoro. A che pro?
Si parla di un aumento dell’Iva dal 10 al 13% e dal 22 al 25%, come promesso nell’ultimo Documento di Economia e Finanza ai mercati e a Bruxelles, nel caso a settembre non si provveda con altri tagli alla spesa pubblica o diversa tassazione. La colonia, si diceva.
Ecco perché Padoan, la Ue, l’Ocse e via discorrendo chiedono questo: se per 25 anni io tasso più di quanto spendo, la quantità di moneta presente nell’economia nazionale si riduce giocoforza anno dopo anno. E se la penuria di moneta genera una crisi per la quale anche il sistema bancario non è più in grado di concedere prestiti sicuri a famiglie e imprese, la siccità monetaria rischia di bloccare del tutto l’economia nazionale.
Ho, però, una via d’uscita: fare in modo che dall’estero la moneta in entrata (grazie alle esportazioni) sia maggiore di quella in uscita (con le importazioni). Giochino da due più due al quale si è prestato con perfezione Mario Monti e che è stato poi seguito dai governi seguenti. E veniamo nel dettaglio come l’aumento dell’Iva e la riduzione delle imposte sul lavoro si presti a questo gioco, senza però creare maggiore ricchezza.
PIÙ IVA, MENO CONSUMI L’aumento dell’Iva determina l’aumento dei costi dei prodotti. A parità di salari, stipendi e utili d’impresa, questo significa che si acquisteranno meno prodotti. Se il costo di un dolce passa da 2 euro a 2,4 euro (sono numeri esemplificativi), con dieci euro di stipendio prima ne comprerò 5, poi 4.
PIÙ IVA, MENO CONSUMI STRANIERI (importazioni) L’Iva si applica ai beni importati, che quindi saranno più costosi e saranno acquistati meno.
PIÙ IVA, MA NON SULLE ESPORTAZIONI Sui beni esportati invece grava l’Iva applicata nei paesi importatori. Non risentono quindi dell’aumento dell’Iva in Italia per cui le esportazioni non subiscono flessioni. Quindi, per ora, abbiamo Diminuzione consumi, diminuzione importazioni, stabilità esportazioni (fatte salve altre variabili).
MENO TASSE SUL LAVORO, UN PO’ PIÙ OCCUPAZIONE La riduzione del cosiddetto cuneo fiscale aumenta la propensione all‘assunzione di lavoratori o, nel caso in cui questo non sia necessario (si pensi ad una piccola azienda che non ha bisogno di nuove assunzioni) aumenta il profitto aziendale o eventuali investimenti della quota detassata. A seconda di come si sviluppa in concreto la ricaduta della detassazione del lavoro, si hanno conseguenze diverse nell’economia reale. L’aumento degli occupati aumenta i consumi; l’aumento del profitto aziendale può aumentare i consumi ma in maniera meno diretta, potendo il profitto extra essere impiegato in prodotti finanziari, speso per vacanze all’estero, eccetera. I maggiori investimenti aumentano la produttività aziendale e generano un aumento dei consumi.
MENO TASSE SUL LAVORO, PIÙ ESPORTAZIONI Per le aziende si registra una riduzione di un costo di produzione, così il prezzo finale del prodotto scende. Se a livello nazionale questa diminuzione è compensata dall’aumento dell’Iva, a Berlino o a Mosca il prodotto italiano diventa più concorrenziale.
PIÙ LAVORATORI MA MENO CONSUMI Così abbiamo un incremento delle persone impiegate ma, quasi sicuramente, una contrazione dei consumi, o, nella migliore delle ipotesi, un gioco a somma zero: lavorano più persone ma il maggior reddito che viene determinato dalle nuove assunzioni non consente un aumento dei consumi a causa dell’aumento dell’Iva. Probabilmente il gioco sarà a somma negativa, proprio perché una parte delle detrazioni sul lavoro diventeranno risparmio o spesa all’estero. Allora perché?
L’aumento dell’Iva è una classica politica deflazionistica, contrariamente a quanto potrebbe sembrare superficialmente. Così facendo lo Stato ritira dall’economia reale una quota maggiore di moneta, provocando un incremento della siccità, non, come potrebbe sembrare, una inondazione di moneta da spendere.
L’aumento dell’Iva dunque più che compensa la spinta mini-inflazionistica derivante dall’aumento dell’occupazione e dal reinvestimento della quota detassata. L’aumento delle esportazioni conseguente supera invece la contrazione delle importazioni. In questo modo, nonostante il perseguimento delle politiche interne di austerità, l’economia nazionale continua a sopravvivere con un’altra boccata d’acqua (moneta).
Soprattutto all’interno di un regime di cambi fissi come l’euro le nazioni vincenti a livello economico sono quelle che praticano con più efficienza la deflazione, poiché in assenza di fluttuazioni del cambio e a parità di qualità dei prodotti, viene acquistato quello prodotto nella nazione dove l’inflazione è più bassa.
Il sogno finale è avere un aumento dei lavoratori i quali però non beneficeranno dei prodotti del loro lavoro, destinati ai mercati dei nuovi ricchi stranieri. Da produci consuma crepa, dunque, si virerà ad un produci non consuma crepa. Si dice 2.0, si dice post-modernità. Si dice Pier Carlo Padoan.
La Legge di Stabilità “espansiva” di Renzi e Padoan ha inserito delle clausole che impongono l’aumento automatico dell’imposta sui consumi nel caso non si raggiungano gli obiettivi del pareggio di bilancio. Così l’aliquota al 10% rischia di arrivare al 13% e quella al 22% (due anni fa al 20) fino al 25,5%
Dopo l’aumento dell’Iva e la riduzione del deficit di bilancio, i nipponici hanno raggiunto il crollo più tragico nelle vendite al dettaglio del commercio interno nella storia recente.
L’IVA è la tassa più distruttiva mai inventata in economia. Va abolita e basta. Aumentarla sarebbe un’altra fucilata al futuro dei tuoi bambini. Dillo a Letta
Il problema dell’economia è che il deficit di bilancio è troppo basso: dev’essere molto maggiore. Ci deve essere più spesa pubblica o una minor tassazione, oppure una combinazione delle due. Comunque, il deficit è troppo basso. E il problema è che tutti i vostri leader politici pensano che il deficit sia eccessivo, e quindi fanno tutto il possibile per ridurlo. Il deficit, però, è uguale ai vostri risparmi: i vostri risparmi sono troppo bassi, voi non avete abbastanza reddito. Avete bisogno di più soldi. C’è disoccupazione e tutti sono praticamente a terra, perché il deficit è troppo basso. Purtroppo, per l’Italia – come parte del sistema euro – non si riesce a incrementare il deficit, perché i mercati vi taglierebbero fuori, e quindi è necessaria una garanzia dalla Banca Centrale Europea. Ne ho parlato fin dal ’95 e alla fine è successo: a maggio, quando Trichet ha proposto che la soluzione di tutti i problemi fosse la banca centrale.
Trichet è stato seguito poi da Draghi, che ha detto che avrebbero fatto tutto il possibile per fare in modo che l’Italia potesse auto-finanziarsi. Effettivamente questo è successo: i finanziamenti non sono più un ostacolo. Però, ancora, continuano a cercare di ridurre il deficit. E tutte le cose continueranno ad andare di male in peggio, fino a quando non capiranno che il deficit dev’essere maggiore. Le piccole e medie imprese di cosa hanno bisogno? Ovviamente, di persone che abbiano soldi da spendere. E come si trovano, queste persone? E’ necessario abbassare le tasse e aumentare la spesa pubblica: dobbiamo aumentare il deficit. Il governo impone una tassa; a quel punto, deve spendere abbastanza per permettere alla gente di pagarla, questa tassa, e anche di accumulare dei risparmi. Perché, se non si spende abbastanza per pagare le tasse e riuscire a risparmiare, non c’è più economia: ed è quello che sta succedendo.
Le aziende si basano sulle vendite – è così che vivono – e continuano a competere per aggiudicarsi le spese dei consumatori. Quindi sta al governo, allo Stato, far sì che la tassazione non privi di troppi fondi la gente, non la privi del denaro necessario alle spese per vivere. Una volta stabilito un governo equo, quindi con tutti i servizi pubblici necessari, c’è un livello sufficiente di tassazione, in cui le persone hanno abbastanza soldi da spendere per comprare tutti i beni e servizi che si possono produrre, e contribuire così a una piena occupazione. Non è difficile ottenere tutto questo, ma i leader devono capire che questo può implicare un deficit: e a questo non sono pronti. Un’economia “domestica” Mmt, fondata sulla Teoria della Moneta Moderna, è in grado di garantire la prosperità? A tutt’oggi: sì. Noi possiamo garantire la piena occupazione, buoni posti di lavoro per tutti. E questo significa che tutti riescono a produrre ricchezza, beni e servizi che costituiscono la nostra prosperità.
Abbiamo bisogno delle esportazioni? Sono necessarie solo per pagare le importazioni. Il commercio ci rende tutti ricchi e prosperi: compriamo delle cose gli uni dagli altri, abbiamo degli scambi; se non ci fossero commercio e scambio, sarebbe necessario coltivarsi i propri prodotti nei campi, fabbricarsi le scarpe da soli, insegnare da soli ai figli. Noi ci specializziamo: alcune persone coltivano i campi, altri insegnano ai ragazzi, altri si occupano dei malati. Le persone che lavorano in agricoltura producono per tutti; quelli che curano i malati si occupano di tutti i malati; chi insegna ai ragazzi insegna a tutti i ragazzi. Quindi noi suddividiamo il lavoro, e questo si chiama commercio, scambio, ed è una buona cosa. Quando ci si specializza, si riesce a far meglio tutto.
Noi non vogliamo delle restrizioni in questo meccanismo di scambio, eppure abbiamo un enorme restrizione, a questo riguardo – nello scambiare servizi, fare le cose gli uni con gli altri – e questa restrizione si chiama Iva, imposta sul valore aggiunto. E’ una tassa imposta sullo scambio di servizi. Cioè: se mi voglio far tagliare i capelli da qualcuno, devo pagare l’Iva. Se voglio comprare un paio di scarpe, devo pagare un’imposta sul valore aggiunto. C’è un’Iva su tutte le transazioni: e questa è una tariffa – una restrizione – sul commercio. Ci rende tutti più poveri. E quindi è il tipo più sbagliato di tassa, da introdurre. Noi invece vogliamo incoraggiare questi scambi. E questo deve estendersi anche al resto del mondo: dobbiamo essere in grado di avere accesso a tutti i prodotti del resto del pianeta. Pagandoli come? Con nostri prodotti. Noi non vogliamo limitare questo meccanismo di scambio. E perché allora vengono applicate restrizioni? Perché pensiamo che l’importazione causi disoccupazione: pensiamo che, se importiamo prodotti, perdiamo posti di lavoro, qui.
Quando le persone contraggono prestiti, spendono e l’economia si surriscalda, le tasse automaticamente aumentano. Quando si guadagna di più, si paga di più: quando ci sono degli utili, si pagano automaticamente più tasse. E questo si chiama: stabilizzazione fiscale automatica. Per cui, gli adeguamenti necessari che deve attuare il governo possono essere molto limitati, o addirittura superflui. Purtroppo, però, a causa del fatto che lo Stato si occupa sempre di deficit e vuole arrivare a un “deficit zero” o al 3%, quindi ridotto al massimo, invece di pensare alla prosperità e fare in modo che ci sia la piena occupazione per tutti, quindi senza stare a pensare all’entità del deficit perché in fondo non importa – purché tutti abbiano un lavoro e non ci siano troppi problemi – lo Stato adotta misure che non hanno alcun senso. Come quelle di adesso: in cui si decide che, anche con un’elevata disoccupazione, il deficit è accessivo, e quindi si cerca di ridurlo. Persino se lo lasciassero così com’è, probabilmente, l’economia si riprenderebbe: certo non sarebbe una ripresa veloce, ma graduale nel corso degli anni. Ma non lo stanno facendo: cercano anzi di ridurlo, il deficit. E peggiorano le cose. E sono assolutamente responsabili delle condizioni attuali del paese.
(Warren Mosler, estratti dell’intervento “Il deficit è troppo basso”, condotto al meeting sulla Modern Money Theory promosso da Paolo Barnard a Rimini il 20-21 ottobre 2012 e riportato sul sito MeMmt).
FONTE: http://www.libreidee.org/