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“Questi economisti furono totalmente smentiti dai fatti e non riuscirono minimamente a prevedere le conseguenze catastrofiche della deregolamentazione del mercato del lavoro e della deregolamentazione finanziaria che essi avevano promosso”

Di Cristian Dalenz Buscemi qui l’originale
Si è svolta domenica 30 settembre alla Sala del Carroccio del Campidoglio di Roma la presentazione del nuovo libro scritto dal giornalista Thomas Fazi e dall’economista Bill Mitchell, “Reclaiming the State: A Progressive Vision of Sovereignty for a Post-Neoliberal World”.
Libro, per ora, uscito solo in versione originale in lingua inglese, il cui titolo potremmo grossomodo tradurre con “Reclamare lo Stato: Una visione progressista della sovranità per un mondo post-neoliberale”.

Non sono nuovi tentativi di proporre il ritorno ad uno Stato più forte, basti ricordare i libri di Mariana Mazzucato.
Ma qui Fazi e Mitchell vogliono passare direttamente all’azione politica, e pretendere che lo Stato protegga i propri cittadini dalle crisi provocate della globalizzazione. Per farlo, è necessario chiamare alle armi della politica quella parte che ha abbandonato la sua missione storica volta a proteggere i più deboli: la sinistra.
Fazi si esprime da tempo su queste posizioni, ed ultimamente sta anche partecipando alla costruzione di un nuovo soggetto politico: Senso Comune.

L’australiano Mitchell aveva già scritto un libro sulla “distopia europea”; inoltre il suo blog è da tempo molto letto anche dalle nostre parti.
Moderati da Chiara Zoccarato, membro del dipartimento economia e lavoro di Sinistra Italiana, erano presenti, oltre ai due autori del libro, il direttore del Centro Riforma Stato Nicola Genga e l’onorevole Stefano Fassina, organizzatore dell’incontro.
LE PAROLE DI THOMAS FAZI
Fazi ha spiegato subito che il libro nasce dalla necessità di “orientare la sinistra verso il recupero di sé stessa”.
Troppe le svolte verso destra nel recente passato, fino al punto di accettare con ben scarsa critica la svolta neoliberale tra gli anni ’70 e ’80. Con Mitchell c’è stato lo sforzo di identificare ciascuno di questi punti di volta, a partire dalle decisioni del Primo Ministro inglese James Callaghan, laburista, nei primi anni ’70 fautore di un programma chiaramente socialista e poi piegatosi alle politiche di austerità quando diresse il governo di Sua Maestà tra il 1976 e il 1979.
Per Fazi c’erano alternative, altro che il There Is No Alternative di Margaret Thatcher! Si poteva andare oltre il compromesso socialdemocratico post-guerra, perché no anche ragionare sul superamento del capitalismo, ma si è scelto di non farlo. E non solo in Inghilterra, ma in tutti i Paesi in cui la sinistra ha governato a partire da allora.
Ora però la crisi del neoliberismo si fa sentire sempre più, e con essa lo scoppiare dei vari nazionalismi di stampo etnico. Per superarla è necessario recuperare, come da titolo del testo, una visione progressista della sovranità nazionale, che non deve essere necessariamente intesa in senso reazionario. È solo su questo piano che si possono riconquistare diritti perduti.
E parte dell’azione politica dovrà consistere nel liberare la mente delle persone da falsi miti macroeconomici, su cui è sceso più avanti nel dettaglio Mitchell.
IL PENSIERO DI FASSINA
Fassina ha poi preso la parola, riconoscendo l’importanza di questo libro in un momento in cui la crisi del pensiero europeista della sinistra è più che evidente. Crisi che travolge anche la stessa classe dirigente di cui lui fa parte, che a dire dell’ex democratico ha una difficoltà “psicoanalitica” nel riconoscere i problemi esistenti e capire perché i ceti popolari vanno sempre più a destra. Anche lui cerca di smentire l’idea che parlare di sovranità debba necessariamente intendersi come chiusura autarchica e sciovinista, che è in fondo l’interpretazione neoliberista del termine.
Una classe dirigente in cui Fassina non omette di aver militato, e in posti importanti. Ricordiamo qui che è infatti stato responsabile economia del PD di Bersani e sottosegretario all’Economia nel ministero di Fabrizio Saccomanni, quando al governo c’era Enrico Letta. E ai suoi dice che “è troppo facile prendersela solo contro Renzi; la svolta neoliberale era stata acquisita già da tempo.” Due momenti storici sono da lui individuati come particolarmente critici per la sinistra in Italia:

  • il 1968, che diede il via a un forte movimento di contestazione popolare e giovanile e che portava con sè il rifiuto del peso dello Stato;
    – il 1989, anno della caduta del Muro di Berlino. a partire dal quale è cominciato il rinnegamento dei propri valori da parte del ceto dirigente «rosso».
  • Va dunque a suo avviso respinto il leit motiv del “più Europa”, cancellando tutte quelle direttive che hanno svalutato il lavoro (la Bolkenstein, quella sugli ordini professionali, e tutte quelle che portano il principio del Paese d’origine), ed “è da sostenere un sano patriottismo costituzionale”.

Infine ha ringraziato gli autori per aver fatto riflettere su come nel neoliberismo non c’è stato affatto un ruolo diminuito dello Stato, ma anzi un intervento volto proprio a garantire il mercato, soprattutto nella sua evoluzione finanziaria, anche con operazioni di polizia. Un punto che il filosofo Michel Foucault sollevava già negli anni’70, allorquando dava lezioni sul neoliberismo al College de France (poi raccolte nel libro “Nascita della biopolitica”).
LE PAROLE DI NICOLA GENGA
Genga ha ricordato, prima ancora che lo facesse Mitchell, come “questo testo assume come propria teoria economica la Modern Monetary Theory (MMT)”, nota in Italia grazie al lavoro di Paolo Barnard.
Il direttore del CRS è allineato con gli autori quando si tratta di respingere le accuse di fascismo che vengono fatte a chi critica il neoliberismo, cosa che però la sinistra politica tendeva a non fare quando c’era il movimento di Seattle. E ricorda anche come parte del Partito Socialista Francese non aveva difficoltà a definirsi sovranista. Cita inoltre come positive “la distinzione tra economia e crematistica ricordata dal testo”, la critica al concetto neoclassico di efficienza, le proposte di lavoro garantito (da preferire rispetto a quelle sul reddito di base).
E’ però scettico sulla fattibilità del progetto. In particolare secondo lui
La sovranità monetaria è difficile da ottenere, e il libro non affronta il problema del soggetto politico che dovrebbe lottare per raggiungerla (e chissà, per Fazi magari per quanto riguarda l’Italia si tratta proprio di Senso Comune, di cui non ha però parlato in questa occasione);
È difficile portare il popolo a volere più Stato, visto che è stato abituato ad odiarlo dalla propaganda neoliberista, anche nelle sue varianti “politicamente scorrette” e populiste (alla Berlusconi, per intenderci).
Sul piano internazionale, il libro chiede giustamente di debellare la finanza rapace, nazionalizzare le banche, uscire dall’euro, stabilire un commercio solidale tra i Paesi del mondo, cancellare il debito di quelli più poveri. Ma sarà molto difficile trovare accordi mondiali su questi punti.
IL PENSIERO DI BILL MITCHELL
Il giro è stato chiuso da Bill Mitchell.
Anche lui è partito dal riconoscere “la crisi mondiale del pensiero di sinistra e della sua vicinanza al neoliberismo”. Ciò nonostante, ci ha ricordato, i suoi scopi originali non sono morti. E considerando che l’internazionalismo è sempre fallito per via degli interessi di ciascuna nazione, spiega brevemente il programma che ciascun governo dovrebbe praticare:
Entrare in pieno possesso dei poteri politici sulla propria moneta;
Implementare politiche per il pieno impiego attraverso piani di lavoro garantito finanziati attraverso emissione della moneta stessa, ricordandosi che diversamente da quanto racconta la vulgata, uno Stato non finisce mai le proprie risorse se è in controllo della propria banca centrale;
Imporre controlli sui movimenti di capitale per impedire perdite di ricchezza nazionale, misure volte alla stabilità e all’interesse generale, non alla privazione di libertà come si racconta.
“Sarà necessario sconfiggere l’ignoranza economica dilagante anche fra i politici” per raggiungere l’obiettivo di mettere la sinistra in condizione di praticare queste politiche e far tornare la sinistra a credere in sé stessa.
Buon esempio è per lui il suo proprio Paese, l’Australia, che in occasione della crisi finanziaria è intervenuto nell’economia in maniera forte. A dirla tutta interventi di questo genere ci sono stati anche in Europa tra il 2008 e il 2009, prima di ripiegare negli anni successivi su un’austerità in alcuni casi atroce.
Il libro è edito da Pluto Press, che già fece uscire The Battle For Europe di Fazi.

La nostra Associazione al suo interno raccoglie una pluralità di posizioni e di punti di vista, una ricchezza di opinioni politiche che sono il fondamento di quella democrazia reale e di sostanza che tanto promuoviamo e la nostra forza sul territorio.
L’unico vincolo che poniamo è la coerenza con quelle verità macroeconomiche inconfutabili e i parametri economici che da sempre indichiamo come necessari per lo sviluppo libero e sostenibile di un paese  e con la necessaria aderenza alla Costituzione Repubblicana.
Pertanto, nel pieno rispetto della nostra pluralità di punti di vista sulle tematiche che riguardano la politica in generale, vogliamo comunque dare la giusta visibilità a questa iniziativa sottoscritta da economisti e intellettuali MMT (Bill Mitchell e Scott Ferguson) o vicini alle nostre posizioni, tanto da essere professionisti con cui collaboriamo apertamente in convegni ed eventi.

Con l’attuazione del mercato unico europeo e del Trattato di Maastricht, l’integrazione europea si è affermata come progetto di ristrutturazione a lungo termine dell’economia europea in senso neoliberista. Il Patto di Stabilità e Crescita, l’affermazione delle “libertà fondamentali” del mercato unico e l’Unione monetaria europea, rappresentano l’impalcatura istituzionale che ha alimentato le politiche di austerità, lo smantellamento dei diritti dei lavoratori e dello stato sociale e le politiche di privatizzazione in tutti gli stati membri dell’UE.
Contrariamente alla tesi che vuole l’UE come un campo di gioco neutrale, gli eventi successivi alla Grande Recessione del 2007/9 hanno evidenziato come l’attuale progetto di integrazione europea sia segnato dalla natura regressiva dei trattati che lo definiscono e da una radicalizzazione senza precedenti del suo carattere neoliberista. Rapporti asimmetrici e relazioni gerarchiche di potere (centro-periferia) caratterizzano da lungo tempo l’integrazione europea, ma hanno raggiunto il loro culmine con il dominio tedesco sugli orientamenti di politica economica negli anni successivi alla Grande Recessione. Gli sviluppi normativi che hanno accompagnato la creazione dell’eurozona e le misure prese in risposta alla crisi dell’euro, con l’imposizione di vincoli sempre più stringenti e di regole e strumenti di governance con sempre minore legittimazione (Patto EuroPlus, Fiscal Compact ecc.) hanno accentuato il carattere autoritario e neoliberista di tale progetto di integrazione, che è diventato una vera minaccia alla democrazia e alla sovranità popolare.

L’euro – Una valuta alla radice della crisi

La crisi dell’euro è il prodotto di un errore di concezione e un difetto di costruzione dell’Unione Monetaria Europea (UME), che ha avuto fin dall’inizio quali obiettivi prioritari l’austerità e il contenimento dell’inflazione. Per gli stati membri dell’eurozona, lungi dal condurre ad un processo di convergenza economica e sociale, la prospettiva di uno “sviluppo economico reale” (in termini di salari, produttività ecc.) si è progressivamente allontanata. L’Emu ha finito per alimentare pesanti squilibri macroeconomici (crescenti deficit delle partite correnti non solo nell’Europa meridionale più periferica, ma anche in Francia e in Italia, cui hanno corrisposto crescenti surplus in Germania e in altri paesi) e ha condotto, in una prima fase, a ingenti flussi di capitali dal centro alla periferia dell’eurozona. La disponibilità di credito a buon mercato ha alimentato bolle speculative immobiliari e finanziarie, determinando un aumento consistente del debito privato e, in alcuni casi, di quello pubblico.
Un’importante determinante di tali squilibri è stata la politica di contenimento del costo del lavoro in Germania, realizzata attraverso la riorganizzazione della filiera produttiva dell’export tedesco, con l’utilizzo di lavoro a buon mercato dell’Europa orientale, con politiche di dumping salariale e fiscale e con tagli alla spesa sociale.
La conseguenza di tutto questo è stata una forte pressione sulle economie più deboli perché aumentassero la “competitività internazionale” dei rispettivi settori produttivi nell’industria e nei servizi. Dal momento che nel quadro dell’UME non era possibile farlo attraverso un riallineamento delle valute, l’unica strada era quella della svalutazione interna. In termini pratici, voleva dire smantellamento dello stato sociale, privatizzazione dei servizi e delle infrastrutture pubbliche, riduzione dei salari e della spesa sociale, concorrenza fiscale, attacco alla contrattazione collettiva, riduzione del peso dei sindacati e demonizzazione, o in alcuni casi licenziamento, dei dipendenti pubblici.

L’euro – Uno strumento a vantaggio del capitale finanziario

È importante sottolineare che nessuna di queste cose è accaduta a causa di difetti di costruzione imprevedibili: dal punto di vista di chi ha concepito tale costruzione in un’ottica neoliberista, l’euro ha funzionato bene. Non ha funzionato rispetto agli obiettivi di equilibrio economico tra gli stati membri, di crescita economica e di piena occupazione, ma è stato molto efficace nel distruggere i diritti del lavoro, il sistema di sicurezza sociale, il settore pubblico, la tassazione dei profitti e nell’imporre il salvataggio delle banche con I soldi pubblici.
Questo è il modo in cui l’euro funziona dal punto di vista politico: costringe chi lo adotta ad una concorrenza al ribasso, per la quale la posizione economica di ciascuno stato membro può migliorare soltanto adottando politiche che vanno contro l’interesse della maggioranza della popolazione e a beneficio del capitale internazionale. Crea una spirale di progressiva riduzione delle retribuzioni, delle pensioni, delle prestazioni sociali, dell’impiego pubblico, degli investimenti pubblici.
Come dimostrato chiaramente da quanto è accaduto in Grecia nell’estate 2015, la struttura di governo dell’eurozona non mostra alcuna apertura verso politiche che seguono il volere espresso democraticamente da una maggioranza di cittadini quando queste sono in contrasto con l’agenda neoliberista. Quando il governo guidato da Syriza ha provato a realizzare il suo programma – e persino dopo il mandato ricevuto con l’Oxi del referendum – la BCE ha usato le sue armi finanziarie per costringere il governo a capitolare e firmare il memorandum.

L’euro – Un progetto sbagliato che non è possibile correggere

Come è stato dimostrato ormai da un numero elevato di studiosi, l’eurozona non ha i requisiti per essere un’area monetaria funzionante, né possiamo aspettarci che li possa avere in futuro. Per funzionare, un’area monetaria come l’eurozona, con livelli di produttività e strutture economiche così diverse, necessiterebbe tra le altre cose di ingenti trasferimenti finanziari in grado di compensare gli squilibri economici. Stime attendibili mostrano che occorrerebbe redistribuire qualcosa come il 10% del Pil dalle economie più forti a quelle più deboli. Una passo del genere non solo non è realizzabile politicamente, è anche indesiderabile: come dimostrano tutti i precedenti nella stessa eurozona, i governi dei paesi finanziatori userebbero la loro posizione per influenzare le politiche nazionali nei paesi percettori dei finanziamenti, calpestando la democrazia. Negli anni più recenti abbiamo visto con quale rapidità un tale sistema possa minare la sovranità popolare, dividere I popoli europei e alimentare la xenofobia.
In definitiva, l’opzione di uno stato europeo democratico e federale che non rifletta le attuali disparità di potere tra gli stati membri richiederebbe una società civile europea che al momento non c’è, e che non può certo essere creata dall’alto.

Lexit – La strada per combattere efficacemente il neoliberismo e sostenere la democrazia

Sullo sfondo dell’allarmante perdita di diritti democratici, dello smantellamento dello stato sociale e della privatizzazione dei beni comuni, le forze di emancipazione presenti in Europa devono proporre un’alternativa praticabile e credibile, basata sull’esercizio della sovranità popolare, al corrente progetto autoritario di integrazione neoliberista. È per questo che occorre avanzare la proposta di una Lexit (left exit, uscita da sinistra) come strumento di rivendicazione democratica.
L’allarmante crescita delle forze di estrema destra nella maggior parte dei paesi dell’eurozona si spiega anche con la loro posizione contraria all’UE e al sistema di governo dell’euro. Le loro proposte politiche sono tuttavia fuorvianti: le forze anti-euro di destra, per esempio, lottano per maggiori controlli sull’immigrazione mentre non fanno alcun cenno alla mobilità incontrollata dei capitali da e verso quei paesi che perseguono politiche di compressione dei salari. Per queste forze sarebbe sufficiente fermare la libera circolazione delle persone in Europa e abbandonare l’euro, lasciando che le valute siano determinate dal libero operare dei mercati e dei movimenti speculativi: possiamo parlare a questo riguardo di “neoliberismo xenofobo”.
Se vogliamo evitare un tale scenario, abbiamo bisogno di una Lexit: un’alternativa internazionalista basata sulla sovranità popolare, sulla fraternità, sui diritti sociali e sulla difesa delle condizioni dei lavoratori e dei beni comuni.
L’insostenibilità dell’eurozona è un fatto oggettivo. Presto o tardi, si porrà una scelta tra alternative vie d’uscita dall’euro, verso destra o verso sinistra, con effetti molto diversi dal punto di vista sociale. Diciamo esplicitamente che l’obiettivo della Lexit è quello di sviluppare strategie di emancipazione di sinistra per superare l’euro e contrastare l’integrazione neoliberista. La discussione è già iniziata e ci sono diverse proposte sul tavolo: invitiamo tutti coloro che condividono l’idea della Lexit a unirsi a questa discussione e alla nostra iniziativa.


Primi firmatari

  • Tariq Ali, author and filmmaker, UK
  • Jorge Amar, Asociación por el pleno empleo y la estabilidad de precios, Spain
  • Prof. em. Yangos Andreadis, Pantheion University, Greece
  • Cristina Asensi, Democracia Real Ya and Money Sovereignty Commission, Spain
  • Prof. Einar Braathen, Oslo and Akershus University College, Norway
  • Prof. Lucio Baccaro, Université de Genève, Switzerland
  • Gina Barstad, No to the EU and Socialist Left Party, Norway
  • Luís Bernardo, Researcher, Portugal
  • Simon Brezan, 4th Group of United Left, Slovenia
  • Prof. Sergio Cesaratto, University of Siena, Italy
  • Prof. Massimo D’Antoni, University of Siena, Italy
  • Alfredo D’Attorre, MP Sinistra Italiana, Italy
  • Fabio De Masi, MEP GUE/NGL, Germany
  • Klaus Dräger, former staff of the GUE/NGL group in the EP, Germany
  • Stefano Fassina, former Vice-Minister of Finance, MP Sinistra Italiana, Italy
  • Prof. Scott Ferguson, University of South Florida, United States
  • Prof. Heiner Flassbeck, Hamburg University and Makroskop, Germany
  • Kenneth Haar, Corporate Europe Observatory, Denmark
  • Idar Helle, De Facto, Norway
  • Inge Höger, MP Die Linke, Germany
  • Prof. Martin Höpner, Max Planck Institute for the Study of Societies, Germany
  • Dr. Raoul Marc Jennar, Political scientist and author, France
  • Dr. Lydia Krüger, Scientific Council of Attac, Germany
  • Kris Kunst, Economy for the people, Germany
  • Wilhelm Langthaler, Euroexit, Austria
  • Prof. Costas Lapavitsas, SOAS University of London, UK
  • Frédéric Lordon, CNRS, France
  • Stuart Medina, Asociación por el pleno empleo y la estabilidad de precios, Spain
  • Prof. William Mitchell, Director of Centre of Full Employment and Equity, University of Newcastle, Australia
  • Joakim Møllersen, Attac and Radikal Portal, Norway
  • Pedro Montes, Socialismo 21, Spain
  • Prof. Andreas Nölke, Goethe University, Germany
  • Albert F. Reiterer, Euroexit, Austria
  • Dr. Paul Steinhardt, Makroskop, Germany
  • Steffen Stierle, Attac and Eurexit, Germany
  • Jose Sánchez, APEEP, Anti-TTIP Campaign, Attac, Spain
  • Gunnar Skuli Armannsson, Attac, Iceland
  • Petter Slaatrem Titland, Attac, Norway
  • Dr. Andy Storey, University College Dublin, Ireland
  • Prof. Wolfgang Streeck, Max Planck Institute for the Study of Societies, Germany
  • Diosdano Toledano, Plataforma por la salida del euro, Spain
  • Christophe Ventura, Memoire des luttes, France
  • Peter Wahl, Weed e.V., Scientific Council of Attac, Germany
  • Erik Wesselius, Corporate Europe Observatory, Netherlands
  • Prof. Gennaro Zezza, Università di Cassino e del Lazio Meridionale, Italy

Lexit

Ringraziamo il blog Vocidallestero.it per la traduzione dell’articolo di Bill Mitchell, economista MMT australiano.
Qui il link all’articolo originale.
Bill Mitchell legge desolato i report di FMI, Eurostat ed Eurobarometro. In alcuni paesi un’intera generazione di giovani è già condannata alla marginalizzazione sociale ed economica. Il Progetto Europeo procede verso l’inesorabile autodistruzione, mentre la Sinistra persevera nel suo delirio della “Europa unita” e la Destra radicale conquista, in modo più pragmatico, ampi settori dell’elettorato (come previsto, ricordiamolo, dal prof. Bagnai cinque anni fa). L’unica sorpresa è che per ora le élite dominanti continuano a dominare, ma Mitchell ci ricorda che un drammatico capovolgimento dell’ordine politico è solo una questione di tempo.Bill Mitchell all'università Roma 3
di Bill Mitchell, 26 maggio 2016
A volte è come se dovessi darmi un pizzicotto per capire se quello che sto leggendo è un sogno o la realtà. Un po’ di articoli recentemente mi hanno fatto questo effetto, non ultimo il recente report del Fondo Monetario Internazionale (FMI) sull’‘Analisi della Sostenibilità del Debito per la Grecia, che prevede che il livello di disoccupazione nel paese ellenico resti al di sopra del 10 percento ancora per molti decenni. Gli ultimi dati Eurostat sui flussi del lavoro mostrano ugualmente una situazione fosca, per un paese che è stato deliberatamente distrutto dall’ideologia neoliberista. L’ultimo studio dell’Eurobarometro, di quest’anno, sulla gioventù europea mostra chiaramente ciò che la prossima generazione di adulti pensa di tutto ciò: si sentono emarginati dalla vita sociale ed economica. La Troika e i suoi compari nelle grandi aziende stanno facendo un’eccellente lavoro di distruzione delle prospettive economiche per figli e nipoti europei, e anche oltre, anche per i figli dei nipoti. Tra qualche secolo le persone ripenseranno a questo periodo storico come a un medioevo in cui pochi maniaci affamati di potere hanno dominato sui popoli, prima che scoppiasse il caos e la rivolta.
I flussi del lavoro in Europa
L’ultima pubblicazione Eurostat sui flussi del lavoro (pubblicata il 20 maggio 2016) mostra che [solo] il 18 percento delle persone disoccupate in UE ha trovato un lavoro – e questo conferma l’evidenza di un mercato del lavoro europeo gravemente sottotono.
I flussi del mercato del lavoro “mostrano gli spostamenti degli individui tra le categorie di occupati, disoccupati, ed economicamente inattivi, e include nell’analisi l’osservazione delle variazioni nette tra queste categorie“.
Leggete il post sul mio blog: Cosa ci dicono i flussi del lavoro? se volete una discussione più approfondita su questo.
L’analisi dei flussi lordi ci permette di capire come i lavoratori si spostano tra le varie categorie presenti nel mercato del lavoro (occupazione, disoccupazione, inattività) di mese in mese. In questo modo possiamo vedere l’entità degli spostamenti in ingresso e in uscita nella forza lavoro e tra le varie categorie.
In ogni dato periodo c’è un gran numero di lavoratori che entra ed esce da ciascuna categoria del lavoro: occupazione (“E” [da “employment“, NdT]), disoccupazione (“U” [da “unemployment“, NdT]), e fuori dalla forza lavoro (“N” [da “not in the labour force“, NdT]). La misura di stock ci dice qual è il livello all’interno di ciascuna categoria in un dato momento, mentre i flussi ci dicono come si spostano le persone tra le varie categorie da un periodo all’altro (ad esempio da un mese all’altro).
I cambiamenti netti di mese in mese – tra le misure di stock – sono relativamente ridotti rispetto ai flussi totali in entrata e in uscita rispetto a ciascuna categoria della forza lavoro.
Gli statistici misurano questi flussi durante i loro sondaggi periodici sulla forza lavoro – ogni trimestre nel caso dell’Eurostat.
I vari stock e flussi vengono denominati come segue:
E = stock dell’occupazione, con la specifica t = periodo attuale, t+1 = periodo successivo.
U = stock della disoccupazione.
N = stock escluso dalla forza lavoro
EE = EE flusso dall’occupazione all’occupazione (vale a dire persone che erano occupate nell’ultimo periodo e che lo sono ancora)
UU = flusso dalla disoccupazione alla disoccupazione (vale a dire persone che erano disoccupate nell’ultimo periodo e che lo sono ancora)
NN = flusso di coloro che erano esclusi dalla forza lavoro nell’ultimo periodo e che tuttora lo restano.
EU = flusso dall’occupazione verso la disoccupazione
EN = flusso dalla disoccupazione verso l’esclusione dalla forza lavoro
UE = flusso dalla disoccupazione verso l’occupazione
UN = flusso dalla disoccupazione verso l’esclusione dalla forza lavoro
NE = flusso dall’esclusione dalla forza lavoro verso l’occupazione
NE = flusso dall’esclusione dalla forza lavoro verso la disoccupazione
I vari flussi in entrata e in uscita tra le varie categorie, espressi come numero di persone, possono essere trasformati nelle cosiddette probabilità di transizione, ovvero la probabilità di passare da una categoria all’altra.
E così possiamo porci domande come questa: Qual è la probabilità che una persona che è disoccupata adesso diventi occupata nel prossimo periodo?
Dunque, se la probabilità di transizione del passaggio dall’occupazione alla disoccupazione è, diciamo, del 5 percento, allora un lavoratore che attualmente è occupato ha il 5 percento di probabilità di trovarsi disoccupato il prossimo mese. Se questa probabilità scende all’1 percento, allora si può dire che il mercato del lavoro è in condizioni di miglioramento.
Dunque le tre categorie di forza lavoro presentate sopra ci forniscono 9 probabilità di transizione, riferite ai flussi in entrata e uscita da ciascuna categoria verso se stessa o le altre, in tutte le combinazioni.
Analizzare i cambiamenti di queste probabilità nel corso del tempo ci permette di capire come sta andando il mercato del lavoro.
Ho personalmente compilato la tabella con le probabilità di transizione sulla base degli ultimi dati riferiti all’UE a 28 paesi nell’insieme e poi riferiti solamente alla Grecia.
Il confronto tra l’UE a 28 e la Grecia è abbastanza eloquente, come potrete immaginarvi.
Una persona disoccupata nell’Unione Europea ha il 64 percento di probabilità di rimanerlo anche nel periodo successivo (i dati sono riferiti alla fine del 2015). La stessa persona in Grecia ha invece il 95 percento di probabilità di restare disoccupata nel periodo successivo.
Quella stessa persona, nell’UE a 28 paesi ha il 18 percento di probabilità di trovare lavoro nel mese successivo, mentre in Grecia la stessa probabilità è appena al 4 percento (praticamente niente).
La probabilità che un giovane che entra nel mercato del lavoro ora trovi un lavoro nel prossimo periodo è del 3 percento nell’UE a 28 paesi (una probabilità molto bassa). La stessa persona in Grecia ha appena lo 0,5 percento di probabilità di trovare un lavoro, cioè praticamente non ha speranze.
I flussi mostrano che nell’UE a 28 paesi c’è un po’ di mobilità tra le varie categorie della forza lavoro, mentre in Grecia praticamente non c’è.
Il Grecia il mercato del lavoro è bloccato!
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Il report del FMI sulla Grecia
L’Analisi sulla Sostenibilità del Debito per la Grecia, compilata dal FMI, è uno di quei documenti di fronte ai quali dovete trarre un profondo respiro prima di rendervi conto che stanno parlando sul serio.
Il report riguarda il gran parte l’idea del FMI che la Grecia non sarà in grado di raggiungere un surplus primario del 3,5 percento come è richiesto dalle condizioni di salvataggio.
Il FMI scrive che:

Sebbene la Grecia possa, con uno sforzo eroico, raggiungere temporaneamente un surplus vicino al 3,5 percento del PIL, ben pochi paesi sono riusciti a raggiungere e sopportare dei livelli così elevati di bilancio primario per un decennio intero, ed è altamente improbabile che la Grecia ci possa riuscire … le proiezioni suggeriscono che la disoccupazione resterà a doppia cifra per molti decenni.

Conclusione generale: le proiezioni di crescita a lungo termine sono scarse e la ristrutturazione del debito è necessaria.
In altre parole la Grecia non sarà in grado di soddisfare le richieste di restituzione del debito, stabilità bancaria, ecc., poste dalla Troika.
Uno non deve essere laureato in scienze missilistiche per capirlo – o per averlo capito già nel 2010 – quando la Troika entrò in scena.
Lo scopo dei salvataggi era quello di trasformare il debito privato in debito pubblico – non è mai stato quello di aiutare l’economia greca a riprendersi.
Ma a proposito delle proiezioni sulla disoccupazione, a pagina 13 ci viene presentato il Box 2. Cosa guiderà la crescita greca nel lungo periodo? Questo box analizza le tre componenti che noi sappiamo guidare la crescita dell’economia.
1. Sviluppo della forza lavoro (crescita della popolazione, crescita del tasso di disoccupazione alla forza lavoro, tassi di utilizzo).
2. Accumulazione di capitale (investimenti in capacità produttive).
3. Produttività totale dei fattori (TFP) – quanto prodotto si può ricavare dai fattori produttivi di un’economia se questi vengono utilizzati.
Il FMI dice che i primi due fattori ostacoleranno la crescita – “un declino della popolazione in età lavorativa” e “tassi di investimento che non ritorneranno agli insostenibili livelli pre-crisi“.
L’attuale rapporto di investimento (come percentuale del PIL) è sceso all’11 percento. Nel 2008 era il 20 percento. C’è stato un rallentamento enorme nella crescita della capacità produttiva.
Il rapporto è ben al di sotto quello di altri paesi avanzati, e implica che la depressione economia continua a causa delle deliberate politiche promosse e volute dalla Troika e messe in atto da tutti i governi greci, governi che dovrebbero seriamente essere portati a processo per tradimento contro il proprio popolo.
Il FMI afferma che la crescita verrà solo da una crescita della produttività, che, essi dicono, sarà “guidata dalle riforme strutturali“. È il solito vecchio mantra.
Vale a dire: radete al suolo l’economia con tagli alla spesa, deregolamentazioni, privatizzazioni, tagli alle pensioni, disoccupazione – e il gioco è fatto, tornerà la crescita economica.
Purtroppo la Storia non la pensa proprio così su questa strategia.
Il FMI ritiene che il motivo per il quale la Grecia è ancora in depressione è perché non si è fatta ancora sufficiente terra bruciata sull’economia. Il mondo che ragiona ha abbandonato questa “shock doctrine” dopo che Sachs e i suoi scemi compari hanno devastato i paesi dell’est Europa.
Eppure il FMI afferma che per far ritornare la Grecia alla crescita:

…bisogna continuare con le riforme strutturali più di quanto sia stato fatto fino ad ora.

Vale a dire, si incolpa il popolo greco e i suoi governi per non aver essersi piegati ai piedi della Troika fino in fondo.
Non importa che queste politiche abbiano portato a una recessione economica che rasenta il 30 percento e che ancora non se ne preveda la fine.
Il FMI è un’organizzazione che ha smesso di essere di qualche utilità da decenni. Dovrebbe diventare il bersaglio dell’austerità da parte dei governi che lo finanziano, ed essere chiuso!
I suoi commenti e le sue prospettive sul mercato del lavoro in Grecia si possono definire solo ipnagogiche: un brutto sogno e basta.
Queste sono le parole del FMI:

Al tempo stesso, la Grecia continuerà a soffrire l’elevato tasso di disoccupazione per decenni e decenni. Il suo tasso di disoccupazione attuale è attorno al 25 percento ed è il più alto dei paesi OCSE. Dopo sette anni di recessione, la componente strutturale della disoccupazione è stimata attorno al 20 percento. Di conseguenza ci vorrà ancora molto tempo perché la disoccupazione scenda. Gli autori del report ritengono che essa scenderà al 18 percento nel 2022, al 12 pecento nel 2040 e al 6 percento solamente nel 2060.

Notate in particolare l’affermazione che l’80 percento del tasso di disoccupazione [cioè 20 su 25 percento, NdT] è “struttural”, e dunque non suscettibile di essere affrontata con politiche che possano aumentare l’occupazione tramite la spesa.
Questa è una delle truffe che il mainstream usa per evitare di mostrare l’ovvio.
Leggete sul mio blog: La Commissione Europea è di nuovo priva di credibilità e I truffatori nella professione economica, per una discussione più approfondita su questo punto.
L’OCSE lo ha fatto nel 2013 quando ha affermato che molta parte della disoccupazione spagnola era “strutturale”.
Aveva affermato che il tasso di disoccupazione spagnolo aveva raggiunto il 23 percento nel 2013 dopo aver stimato nel 2010 che sarebbe stato all’8 percento.
Qualsiasi interpretazione ragionevole del drammatico aumento del tasso di disoccupazione spagnolo, in conseguenza del drammatico crollo della produzione reale, avrebbe portato alla conclusione che il periodo post-2007 sarebbe stato un evento ciclico.
Gli eventi strutturali di solito cambiano lentamente. Un paese non perde all’improvviso la sua capacità produttiva (a meno che non ci sia un evento straordinario come uno tsunami, un terremoto o una guerra). La forza lavoro non cambia le sue preferenze all’improvviso, non decide tutta all’improvviso di andare in pensione precocemente, di lavorare meno o di “godersi il tempo libero”.
La forza lavoro non diventa indolente tutta ad un tratto. Quando questi cambiamenti di atteggiamento avvengono, impiegano tempo e non si possono comprendere dall’andamento mese per mese.
Sarebbe dunque difficile considerare in termini strutturali l’improvviso aumento della disoccupazione in Spagna, che è passata dal 10 percento nel periodo 2000-2007 (o 8,7 percento nel periodo 2005-2007) al 16 percento nel 2009 e poi ancora al 26 percento nel 2012.
Stesso discorso per la Grecia.
Se il governo greco annunciasse oggi di essere pronto ad offrire lavoro in cambio di un minimo salario decente a chiunque voglia lavorare nello sviuppo comunitario, nella cura ambientale, nella cura alla persona, ecc. – cioè desse una garanzia di lavoro – quanti degli attuali disoccupati si presenterebbero?
Solo 5 su 25 percento?
Immagino che il governo sarebbe inondato di potenziali lavoratori disposti a lavorare per ottenere un minimo di sicurezza di reddito.
In altre parole un aumento della spesa assorbirebbe gran parte della disoccupazione greca nel giro di pochi mesi – il che significa che la disoccupazione non è strutturale ed è invece potenzialmente influenzata dagli aumenti di spesa.
Ma a parte questo, abbiamo un paese che è stato distrutto dagli ideologi di una certa politica che rifiutano di ammettere che nell’economia possa essere necessario un aumento di spesa.
I salvataggi, che vanno in gran parte alle banche estere e alle rispettive élite, non contribuiscono affatto alla spesa nell’economia greca.
Il futuro dei nipoti è a rischio
Tra gli economisti mainstream si continua a fare un gran parlare di come il deficit fiscale e il debito pubblico che ne consegue (dato che i governi, senza che ce ne sia bisogno, continuano a elargire sussidi alle imprese in forma di emissione di debito, no?) mettano a rischio di futuro dei nostri figli.
L’ultimo sondaggio dell’Eurobarometro – Gioventù Europea nel 2016 – fornisce un’indicazione molto chiara su come le politiche mainstream di austerità stiano mettendo a rischio il futuro dei giovani.
Dovreste collegare questa indicazione con i risultati del sondaggio che ho riportato nel post “I soldi dei salvataggi greci vanno a banche e grandi aziende: chi lo avrebbe mai detto?“, che mostrava come una crescente percentuale della popolazione greca sia contro l’euro e pensi che sarebbe meglio avere una propria moneta.
Gli ultimi risultati dell’Eurobarometro ci dicono che:
1. “Più di metà dei giovani europei hanno l’impressione che, nel proprio paese, i giovani siano emarginati ed esclusi dalla vita sociale ed economica come conseguenza della crisi (57 percento)“.
2. “La maggioranza assoluta degli intervistati in 20 paesi sente di essere esclusa [dalla vita sociale ed economica] sebbene ci siano ambie differenze e divegenze, fino a 66 punti percentuali. Non sorprende che le percentuali siano molto alte nei paesi più colpiti dalla crisi e dove c’è maggiore disoccupazione giovanile“.
Ecco qui il grafico che riassume i risultati della domanda su Giovani e Lavoro.
Il 93 percento dei giovani greci sente che la crisi li ha emarginati, cioè esclusi “dalla vita economica e sociale”. La perentuale è dell’86 percento in Portogallo, del 79 percento in Spagna e del 78 percento in Italia… e così via.
Questo è lo splendido risultato del lavoro della Commissione Europea e del FMI. È davvero inconcepibile che dopo 8 anni di crisi le élite dominanti siano ancora dominanti.
Quello che vediamo è che l’instabilità politica inizia a riflettersi in una crescente instabilità sociale. Le élite possono solo cercare di reprimere il popolo il più a lungo possibile.
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Conclusione
I dati sulla Grecia continuano a togliermi il fiato.
Il “Progetto Europeo” è lentamente ma inesorabilmente autodistruttivo. Con alcuni paesi che hanno un’intera generazione di giovani alienati dalla narrazione mainstream, è solo questione di tempo prima che avvenga qualche grosso cambiamento a livello politico.
Il timore è che siano i partiti di destra a prendersi carico di queste generazioni di giovani. La sinistra continua a pavoneggiarsi nel delirio della sua grande visione di un’Europa unita, del ripristino della democrazia e altre cose.
Tutte chimere!
Per oggi basta così!

Rimaniamo sbalorditi delle crisi derivanti da alto indebitamento privato (crisi 2008) senza renderci conto che sono frutto dell’accanimento contro il debito pubblico. Lasciamo bellamente lo sviluppo delle nostre economie all’ingegneria finanziaria privata odiando la politica con l’illusione che un mondo migliore possa essere gestito da un gruppo di amministratori delegati

Perché molti cosiddetti “progressisti” non sono in grado di criticare totalmente il credo conservatore. Partendo da Bill Mitchell un’analisi economica, politica e comunicativa. Accettare i falsi vincoli del “Dio economico” impone poi di avere una visione limitata delle possibilità liberatorie di una economia diversa

Scrive Bill Mitchell: “Le metafore sono allo stesso tempo sia estremamente potenti che pervasive. Queste metafore guidano la nostra capacità di generare i nostri assunti base, e quindi anche al modo in cui pensiamo all’economia”

Un testo scritto dai due professori MMT che fornisce chiavi di comprensione tra le relazioni macroeconomiche e come la produzione e l’occupazione dipendano dalla spesa totale. E allora come può funzionare l’austerità?