Articoli

inps_pensioni1
Uno dei tanti (falsi) miti della propaganda dell’attuale establishment politico (alimentato dai media sciocchi e servi del Vero Potere), consiste nel far credere alle persone che esista un problema legato alle risorse disponibili da dedicare a coloro che, raggiunta una certa età, dovrebbero godere del sacrosanto diritto di trascorrere un’anzianità serena grazie ad una retribuzione che consenta loro di accedere ai beni essenziali per una vita dignitosa.
La polemica di recente è stata accentuata dalla famosa notizia delle buste arancioni che l’INPS sta inviando a 150.000 lavoratori con indicata la data prevista di pensionamento e il valore del primo assegno di pensione.
Ciò che dovrebbe essere un diritto naturale sembra che oggi non lo sia più.
Le motivazioni che vengono addotte si possono distinguere sostanzialmente in due categorie: la mancanza di risorse fisiche (forza lavoro) e, soprattutto, di risorse finanziarie (di soldi) disponibili per garantire agli anziani un’esistenza dignitosa.
Per quanto riguarda il primo aspetto, direi che qualsiasi persona di buon senso può fin da subito stendere un velo pietoso sull’assurdità di tale assunzione, in base alla quale il vero problema di oggigiorno sarebbe che ci sono troppi anziani e troppo poche persone giovani che, con il loro lavoro, possano sostenere tramite il versamento dei contributi dedotti dalla busta paga le casse degli enti previdenziali. Una semplice analisi basata sui numeri degli stessi enti governativi che sottolineano tale “problema” può facilmente smontare questo assunto e infatti basta guardare al dato della disoccupazione totale (11,4%) e della disoccupazione giovanile (36,7%) per rendersi conto che il problema non è affatto la mancanza della forza lavoro, ma il fatto che questa forza lavoro, per seguire la stessa ideologia politica che lascia i nostri anziani senza pensione (e cioè la presunta necessità dell’abbattimento del “debito pubblico”), si preferisca lasciarla inattiva piuttosto che assumerla in attività utili per la collettività (e non si parla solo della produzione di beni materiali, anzi).
Per affrontare il secondo problema (quello finanziario), comunque legato al primo nella retorica dei nostri media e dei nostri politici, è utile fare una piccola digressione sull’evoluzione del sistema pensionistico nel nostro paese.Il vero spartiacque si ebbe nel 1995 con la riforma delle pensioni del governo Dini (Legge 335 del 1995): con essa si passò dal sistema retributivo al cosiddetto sistema contributivo.
Nel sistema retributivo la pensione corrisponde a una percentuale dello stipendio del lavoratore: essa dipende dall’anzianità contributiva e dalle retribuzioni, in particolare quelle percepite nell’ultimo periodo della vita lavorativa, che tendenzialmente sono le più favorevoli.
Nel sistema contributivo, invece, l’importo della pensione dipende dall’ammontare dei contributi versati dal lavoratore nell’arco della vita lavorativa. Il passaggio dall’uno all’altro sistema di calcolo è avvenuto in modo graduale, distinguendo i lavoratori in base all’anzianità contributiva.
Da questo momento in poi si ebbe quindi una vera e propria “rivoluzione” nel concetto di pensione, che da diritto fondamentale della persona diventò un qualcosa da legare indissolubilmente all’andamento economico e alla “disponibilità di risorse” di un determinato momento storico.
Le riforme successive non fecero altro che acuire questo concetto, favorendo i fondi pensione privati (D.lgs 47 del 2000) ed innalzando gradualmente l’età pensionistica. Già la legge 102 del 2009 stabilì a partire dal 2010 l’aumento progressivo dell’età di pensionamento per le lavoratrici del pubblico impiego fino a 65 anni, nonché dal primo gennaio 2015 l’adeguamento dei requisiti anagrafici collegato all’incremento della speranza di vita calcolato dall’ISTAT e validato dall’EUROSTAT.
Lo smantellamento definitivo dei diritti dei lavoratori prossimi all’anzianità si ebbe con la cosiddetta Riforma Fornero (articolo 24 del Decreto Legge “Salva Italia” n. 201del 06/12/2011).
I punti essenziali di questa sciagurata legge sono i seguenti:
-) imposizione del sistema contributivo a tutti i lavoratori, anche a coloro che, in ragione della riforma Dini del 1995, stavano costruendo la propria pensione col più generoso sistema retributivo;
-) innalzamento dell’età pensionistica (pensione di vecchiaia) a 66 anni anche per tutte le donne lavoratrici a partire dal 2018 (67 anni per tutti a partire dal 2021);
-) per ottenere la “pensione anticipata” (cioè prima di raggiungere i limiti di età anagrafica sopra esposti, comunque soggetti a variazioni in base alle stime sull’aspettativa di vita) bisogna aver lavorato minimo 41 anni e 3 mesi per le donne e 42 anni e 3 mesi per gli uomini;
-) Taglio per il 2012 e il 2013 delle rivalutazioni delle prestazioni pensionistiche (in base all’inflazione) che superano tre volte il trattamento minimo (comma 25 dell’articolo 24, poi bocciato dalla Corte Costituzionale) e incorporazione di Inpdap e Enpals presso l’Inps.
La riforma Fornero è anche tristemente nota per aver causato il fenomeno degli “esodati”, ossia, i lavoratori che avevano sottoscritto accordi aziendali o di categoria che prevedevano il pensionamento di vecchiaia anticipato rispetto ai requisiti richiesti in precedenza. Complice l’innalzamento dell’età del pensionamento costoro sono rimasti senza più stipendio e senza ancora pensione, per alcuni periodi di tempo. Un caso che ha riguardato diverse decine di migliaia di persone, per le quali è intervenuto successivamente l’Esecutivo per garantir loro uno “scivolo” per questa fase di passaggio.
Ed eccoci finalmente giunti al panorama attuale nel quale, nonostante si continui a descrivere la spesa pubblica (anche per la tutela delle pensioni dopo 66 anni di età) come un qualcosa di eccessivo e da abbattere sempre di più nel nome della “responsabilità fiscale”, abbiamo la stessa Inps che afferma che il 64,3% delle pensioni ha un importo inferiore a 750 euro.
Vediamo ancora una volta come ciò che la propaganda politica e mediatica attuale vuole far apparire come buon senso e responsabilità (il buon stato padre di famiglia che gestisce in maniera sempre parsimoniosa le sue risorse spendendo meno di quello che incassa) sia in verità l’ennesima grande menzogna creata ad hoc per impaurire le persone e moderare le loro pretese anche quando si parla di diritti imprescindibili dell’uomo, come quello di godere di un’anzianità serena in questo caso e il tutto nel nome del profitto della grande finanza privata (nella fattispecie soprattutto i fondi pensione) che è colei che ha maggior interesse a ridurre all’osso il ruolo dello stato nel tutelare il bene della cittadinanza. D’altronde, lo stesso ministro Elsa Fornero al World Pension Summit del 2012 ammise ciò.
Anche ponendoci nell’ottica mainstream seconda la quale le spese degli enti previdenziali devono essere gestite secondo il principio del non gravare eccessivamente sul debito pubblico, dai dati dello stesso DEF (Documento di Economica e Finanza) del 2016 del governo vediamo che le cose non stanno affatto così. Nella tabella 3.9 a pagina 62 troviamo infatti il dato del debito delle pubbliche amministrazioni, dal quale è possibile vedere nello specifico che il debito degli enti di previdenza e di assistenza rappresenta appena 117 milioni di euro (dati 2015) su un totale di 2.136 miliardi (cioè lo 0,005% del totale).previdenzaMa per sconfessare le logiche imperanti che giustificano la diminuzione dei diritti sociali (anche quelli più importanti) nel modo più autorevole ed inattaccabile, bisogna porsi in un’ottica completamente diversa da quella mainstream e rovesciare  l’intera scala dei (falsi) valori sui quali essa poggia.
Come abbiamo ormai da anni ribadito svariate volte, il debito pubblico in verità non è mai un problema per uno stato sovrano che può emettere la sua valuta (e ahimè oggi non lo siamo più), anzi, rappresenta la ricchezza al netto del settore privato derivante da una spesa pubblica maggiore delle tasse, ricchezza che può venire accumulata sottoforma di riserve (denaro) o sottoforma di titoli, ma in ogni caso rappresenta un attivo e mai questo stato avrà problemi nell’”onorare il suo debito”.
Per uno stato sovrano non esiste alcun limite finanziario, esso non è mai vincolato dalle entrate, anzi, prima di riscattare il denaro che lui solo e per primo può emettere al netto, deve prima spenderlo affinché possa essere conferito al settore privato che lo può utilizzare. E la stessa cosa vale per le entrate degli enti previdenziali che in ultima analisi, al netto delle costrizioni istituzionali autoimposte, mai servono per finanziare le pensioni e l’assistenza, in quanto il loro bilancio è a tutti gli effetti ascritto a quello delle amministrazioni pubbliche di uno stato. Quando uno stato raccoglie il denaro con le tasse non fa altro che diminuire dei “meno” che esso possiede sui suoi conti; mai però in aggregato potrà arrivare ad avere degli attivi da poter spendere, in quanto un azzeramento del debito pubblico coinciderebbe necessariamente con un azzeramento dell’attivo del settore privato o, peggio ad un indebitamento del settore privato nei confronti del governo in caso di “credito pubblico”.
Solo ora che di fatto lo stato italiano assieme a molti altri utilizza una moneta straniera (l’euro) che non può emettere il debito pubblico (e di conseguenza anche tutti i debiti dei singoli settori delle amministrazioni pubbliche) è veramente un problema, in quanto tutti i soldi che il governo spende ed immette al netto nell’economia devono necessariamente derivare da un indebitamento nei confronti dei mercati finanziari privati (a loro volta finanziati dalla Banca Centrale Europea, la sola entità che può creare l’euro, ma che non può conferirlo agli stati).
Ecco quindi smontata con una “semplice” ma quanto mai realistica ed efficace osservazione tutte le false paure che ruotano attorno al tema delle pensioni, nel nome delle quali ci siamo ormai assuefatti ad un modello economico e politico che impone sofferenze inenarrabili alla popolazione, nel nome del profitto dei mercati finanziari globali.
Poi è assolutamente vero che uno stato può costruire una cornice di regole e di cavilli istituzionali che gli impediscono di spendere a deficit senza problemi per tutelare il benessere economico e sociale della sua popolazione, ma alla fine questo è esclusivamente un problema politico e mai economico, in quanto le operazioni delle banche centrali e il sistema bancario dipendono sempre dalle leggi dello stato.
Sta ora a tutti voi lavoratori, imprenditori e pensionati capire queste realtà, informarvi su tutte queste cose che incessantemente ormai da tempo andiamo a diffondere e costringere il governo ad applicare una buona macroeconomia al servizio del 99% della popolazione e non dell’1% dei mercati dei capitali privati, stracciando senza perdere ulteriore tempo dei trattati internazionali che ci impongono questa aberrazione.
Ma fintantoché prevarrà la logica egoistica che vuole ingabbiare le potenzialità dello stato sovrano, perché alla fine se tutti devono spendere in modo parsimonioso badando ad aver dei bilanci in attivo, altrettanto deve fare il governo sennò è sprecone, corrotto e ladro, allora mai riusciremo a reagire nell’unico modo efficace a questa realtà che sta distruggendo la libertà e la dignità delle nostre vite.

Sfaticati, assistiti, pigri. Ma i ragazzi (e non solo) non hanno sradicato culturalmente i punti fondanti del neoliberismo reazionario su cui si basa anche la cultura popolare degli anziani: il mito del debito pubblico, il mito delle “tutele decrescenti”, il mito della spesa pubblica come ostacolo delle imprese private. E, così, soccombono