Postato il 04/06/2019.
Documento redatto dal Comitato Scientifico MMT, in risposta all’articolo de l'”Avvenire” intitolato “La nuova teoria «MMT». La spesa pubblica senza freni, l’idea Usa che seduce e spaventa“, del 25 Aprile 2019.
Questo scritto vuole rappresentare l’inizio di un dibattito serio e costruttivo sulla MMT all’interno del mondo dei media nazionali. Ci siamo sentiti in dovere di replicare ad una serie di inesattezze ed imprecisioni pubblicati da l'”Avvenire” nell’articolo di cui sopra. Tuttavia ringraziamo il quotidiano della Conferenza Episcopale Italiana per l’interesse dimostrato e per aver stimolato il confronto.
Di seguito la nostra risposta.
Che cos’è la Modern Monetary Theory – MMT ?
Questa teoria
nasce 25 anni fa ad opera dell’economista Warren Mosler e si sviluppa
originariamente negli USA; oggi annovera tra i suoi sostenitori economisti di
varie nazionalità.
Per i suoi
contenuti, la MMT si sta imponendo sempre più all’attenzione degli organi di
informazione e nel dibattito accademico; per la sua straordinaria portata
sociale, attira un apprezzamento e un crescente seguito popolare nei vari
continenti, fenomeno davvero straordinario, anzi unico per una teoria
economica.
In Italia
nel 2012, a seguito dei tre summit MMT a Rimini e Cagliari, convegni di
macroeconomia con una partecipazione da guinness dei primati (migliaia di
partecipanti), gli attivisti si riuniscono e convergono in organizzazioni volte
a divulgare a ogni livello sociale la MMT e a svolgere un’opera di
“alfabetizzazione macroeconomica”.
Ad oggi, quest’opera
e il contributo al dibattito economico degli attivisti italiani (dove si ritrovano
sia il cittadino comune, sia il laureato in economia, il ricercatore,
l’analista, il consulente finanziario, ecc.) si sono concretizzati in migliaia
d’incontri pubblici, centinaia di apparizioni in televisione e articoli sui
quotidiani, contatti e collaborazioni con forze politiche, dialogo con
accademici e docenti universitari di economia, presenza costante su social
media e siti web, traduzione ed elaborazione di documenti e tanto altro ancora.
Ci piace
sottolineare che la nostra Associazione opera da anni in tutto il territorio
nazionale autofinanziandosi, senza mai aver usufruito di nessun contributo
esterno; questo può dare un’idea dell’importanza che diamo alla nostra opera di
informazione.
Ma torniamo
al punto. La MMT è una scuola di pensiero macroeconomico post-keynesiana, forse la
più vicina allo spirito della Teoria Generale di John Maynard Keynes,
che in seguito venne ripresa e sviluppata, con una concezione più progressista
del suo autore, da economisti quali Michał Kalecki, Joan Robinson, Nicholas Kaldor,
Piero Sraffa
e Hyman Minsky, con grande
enfasi sulle politiche favorevoli ai lavoratori, alla redistribuzione, a
elevati livelli di occupazione e
di protezione sociale.
Ha solide
basi teoriche e affonda le sue radici nel Cartalismo elaborato, a cavallo tra
il XIX e il XX secolo, dall’economista tedesco Georg Friedrich Knapp, e dall’inglese
Alfred Mitchell-Innes, poi
ripreso da John Maynard Keynes nel suo Trattato sulla moneta e da
una serie di economisti successivi come Abba Lerner e Charles Goodhart.
Tra
i suoi contributi accademici, sono sicuramente da annoverare l’analisi sul
funzionamento della moneta moderna (o moneta fiat), sui rapporti del sistema
bancario con la banca centrale e il Tesoro e lo sviluppo di modelli
previsionali validi e apprezzati, come citato nel vostro articolo, anche da
analisti di Wall Street.
L’approccio
alla fenomenologia economica è anche “pragmatico”, concreto e teso ad osservare
come nel mondo reale funzionano le cose e ad individuarne deduttivamente il
perché; ciò sovente dà una marcia in più a questi economisti nel confronto con
posizioni tradizionali meramente teoriche.
Un
esempio di ciò è il dibattito, citato dal vostro giornalista, tra il famoso
Paul Krugman e la MMTeer Stephanie Kelton, “vinto” dalla seconda: senza
addentrarci nei dettagli, le obiezioni e il relativo modello teorico sostenuti
dal premio Nobel Krugman sono stati dalla Kelton smentiti con i dati del mondo
reale, spiegando anche che il modello era sbagliato perché riferito a una
tipologia di sistema monetario non paragonabile a quello attuale.
Non
ha brillato Krugman, né per competenza, né per eleganza, trattando la Kelton
come economista di secondo ordine.
Non
certo una bella figura per un premio Nobel fare un po’ il sostenuto con una
“sconosciuta” economista e poi farsi insegnare da quest’ultima che, alla
presenza di una spesa dello stato, il tasso d’interesse si muove in senso
diametralmente opposto rispetto a quanto da lui ipotizzato, con la precisazione
che “qualsiasi banchiere te lo saprebbe dire”.
Una
delle cose che più apprezziamo di questa Teoria è che essa sviluppa un modello
caratterizzato dal superamento del secolare conflitto inflazione-piena occupazione,
grazie al consapevole e sapiente utilizzo della moneta moderna, che ha le potenzialità
necessarie allo scopo: oggi, applicando la MMT, è possibile perseguire
contemporaneamente la piena occupazione e la stabilità dei prezzi.
È
innegabile l’estrema valenza sociale di tali proposte di politica economica; riteniamo
che la MMT sia uno strumento unico e
prezioso, in grado di dare un contributo fondamentale alla realizzazione del
modello socio-economico delineato dalla Costituzione italiana, che pone il
lavoro a fondamento della Repubblica democratica e lo indica quale diritto,
dovere e libertà.
Nel vostro
articolo si cita Jerome Powell, Presidente della Federal Reserve, che davanti
al Congresso ha ribadito che “l’idea che i deficit non importino per Paesi
che possono indebitarsi nella loro stessa moneta è semplicemente
sbagliata”.
Se Powell
volesse approfondire meglio la Teoria, magari direttamente dai suoi
sviluppatori e non da rumors orecchiati qua e là, potrebbe scoprire che il
concetto portato avanti dalla MMT è alquanto diverso da quello di uno Stato che
spende come se non ci fosse un domani.
Riguardo
all’entità del deficit dello Stato, è bene ricordare che la MMT non ha una posizione
dogmatica su quale debba essere il saldo del settore pubblico. In avanzo, in
pareggio o in disavanzo che sia, lungi dal vincolare le proprie decisioni di
spesa al rispetto di posizioni contabili prestabilite (l’idea diffusa dei
“conti in ordine”), uno Stato guarderà sempre all’economia nazionale e alle sue
esigenze contingenti, spenderà nella
misura ritenuta necessaria e calibrerà la pressione fiscale ad un livello tale
da lasciare alle persone abbastanza moneta da comprare, in una situazione di
piena occupazione, la produzione interna e ciò che il resto del mondo ci vuole
vendere.
Se per
fare questo in un certo anno occorre sperimentare deficit importanti, ciò non
deve rappresentare un problema, oltre che per quanto già detto nel vostro
articolo, neanche da un punto di vista contabile: uno Stato che s’indebita
nella moneta che lui stesso produce avrà sempre, per definizione, la capacità
di pagare i propri debiti. Anzi, la spesa a deficit è un qualcosa di
necessario, come ammesso anche dall’economista premio Nobel William Vickrey:
essa rappresenta l’attivo del settore privato, che si manifesta appunto quando
la spesa pubblica del settore governo è maggiore della tassazione. Ricordiamo
inoltre che il settore privato di famiglie ed aziende non può aumentare in
aggregato il suo attivo, non potendo legalmente creare il denaro, se non
tramite politiche neoliberiste e neomercantiliste basate sulle esportazioni e
l’abbattimento della domanda interna, al fine di essere competitivi. Si tratta
di politiche che, laddove applicate, hanno dimostrato sempre i loro limiti in
termini di costi sociali; pensiamo allo sfruttamento della manodopera nei paesi
emergenti (quali la Cina e l’India), ma anche nelle cosiddette economie
avanzate quali la Germania, che “vanta” un esercito di milioni di minijobbers,
lavoratori pagati massimo 450 euro al mese.
A questo
proposito, è certamente vero che oggi all’Italia, con l’Euro, è impedito di
realizzare i deficit di volta in volta adeguati al caso.
È anche
vero che ci sono altri problemi diretta conseguenza dei vincoli e delle
anomalie strutturali di questo sistema monetario, come il tasso d’interesse dei
titoli di stato in mano non al Tesoro bensì ai mercati: a causa
dell’impossibilità della BCE, sancita dal Trattato di Maastricht, di acquistare
sul mercato primario i titoli in asta, viene meno un aspetto essenziale della
naturale collaborazione tra l’autorità monetaria e quella fiscale, secondo cui
il Tesoro agisce e la Banca Centrale reagisce in conseguenza.
Non esiste
fuori dall’Euro un meccanicismo che lega l’andamento dei tassi d’interesse dei
titoli di stato con quello del deficit governativo. È ampia la casistica
storica di aumenti di deficit accompagnati a contemporanea riduzione, non
aumento, del tasso d’interesse sui titoli di debito pubblico. A titolo
esemplificativo citiamo: Argentina (2015-2016); Stati Uniti (1982-1983;
1990-1993; 2008-2010); Vietnam (2012-2014; 2017-2018); India (2001-2002;
2008-2009); Francia (1992-1994); Cina (vari anni dal 2006 a oggi).
Tutto questo
dovrebbe fare riflettere: quanto la BCE sta veramente operando in favore degli
stati aderenti all’Eurozona?
E, ancora
più a monte: l’appartenenza al sistema Euro è davvero vantaggiosa in termini
assoluti per l’Italia?
Riguardo
poi alla citazione riportata nell’articolo in cui “i ricchi troverebbero la MMT
conveniente, poiché con più deficit pagherebbero meno tasse”, non corrisponde
al vero in quanto le tasse, per la MMT, rappresentano un importante strumento
di politica fiscale per ottenere l’effetto della redistribuzione della
ricchezza e il suo compito primario non è certo quello di finanziare la spesa
pubblica. Uno stato sovrano della sua valuta prima deve spenderla (creandola
dal nulla) e solo in un secondo momento ne può pretendere il riscatto con la
tassazione.
Inutile
commentare, infine, la definizione denigratoria su Warren Mosler, definito uno
“squalo” di Wall Street; Mosler è il fondatore della MMT e chi la comprende si
rende conto del grande valore sociale delle sue proposte. A tal proposito vi
invitiamo a leggere i suoi scritti.
Concludendo,
la demonizzazione del deficit sottesa a tanta disinformazione è figlia dei
nostri tempi; questo non significa che essa debba essere considerata una cosa
giusta, anzi, ben vengano dibattiti che, come quello portato avanti dalla MMT,
aprano la possibilità a che alcuni degli assunti macroeconomici acquisiti nei
decenni passati, e dati per scontati oggi, siano da tutti misurati nella loro
reale consistenza, ex novo e senza pregiudizi.
A nostro
parere, il punto focale è che, come asserisce la MMT, il deficit dello Stato
equivale al risparmio del settore privato. Detto con parole nostre semplici: se
ci mancano soldi (basta guardare al livello attuale dei nostri consumi per
capire che soldi non ce ne sono abbastanza) lo Stato ce li deve fornire, e lo
può fare solo attraverso deficit di bilancio, creando redditi legati al lavoro,
quindi alla produzione di beni e servizi.
Se non lo
fa, per noi sono guai.
Ormai, si
consenta l’ironia, certe cose le hanno capite persino alla BCE se, nel suo
Research Bulletin n. 36 del 2017 è scritto che: “… In un’economia che ha una
propria moneta a corso forzoso, l’autorità monetaria e quella fiscale possono
garantire che il debito pubblico denominato in quella valuta nazionale non sia
soggetto a default, cioè che i titoli pubblici che giungano a maturazione siano
convertiti in valuta a parità. Con una disposizione di questo tipo la politica
fiscale può focalizzarsi sulla stabilizzazione del ciclo economico anche quando
la politica monetaria sui tassi raggiunge il livello nominale minimo. Nonostante
ciò le autorità fiscali dei paesi dell’area euro hanno rinunciato alla
possibilità di emettere debito non soggetto a default. Di conseguenza una
stabilizzazione efficace del ciclo macroeconomico è diventata un obiettivo
difficile da raggiungere”.
Un’ammissione
importante, anche se la MMT va oltre e consente allo Stato di superare, non già
solo di stabilizzare, il ciclo economico.
Ma questa è un’altra storia…