Modifica della Costituzione: chi rafforza, chi indebolisce
La modifica della Costituzione viene effettuata all’interno di una logica “riformista”. Si tratta di un adeguamento necessario a non prolungare oltre lo scollamento tra la forma del nostro ordinamento e le esigenze nate dall’adesione dell’Italia all’Unione Europea. Logica ben diversa da quella “progressista” su cui è stata scritta e fondata la Costituzione originaria. Progressista in quanto paradigma totalmente innovativo rispetto all’esistente e perché promuoveva un avanzamento di tutta la società in termini economici, sociali, politici e culturali. Guardiamoci intorno, siamo lontanissimi dal progresso del secolo scorso.
Le scelte di politica economica degli ultimi anni hanno portato ad un regresso reale e misurabile. Un recente rapporto della McKinsey dimostra come dal decennio scorso sia avvenuto un crollo di reddito in tutto il mondo occidentale (25 paesi) in percentuali altissime della popolazione dal 65% al 70%, quasi 580 milioni di persone. L’Italia è al primo posto in questa classifica negativa con il 97% della popolazione più povera di prima. (1)
Cosa è successo? Il mondo occidentale si è piegato ad una politica economica basata sul mercato, di cui l’Unione Europea è la massima espressione nel nostro continente.
I Trattati Europei stabiliscono le materie per cui, rispetto agli Stati membri, la UE ha competenze esclusive, concorrenti e sussidiarie. I regolamenti entrano nel sistema legale nazionale con effetto diretto, le direttive concedono una certa discrezionalità sul modo di essere applicate. Tuttavia, queste ultime, con il nuovo articolo 55, verranno deliberate con un Senato di “nominati”, verosimilmente molto influenzabile e poco attento, essendo impossibile per Senatori che sono anche amministratori locali avere il tempo di adempiere a questo compito con la diligenza necessaria.
Inoltre, che la politica fiscale resti ai singoli governi, è un falso clamoroso. Il Documento di Economia e Finanza, la legge più importante dello Stato, quella che decide chi mangia e chi no, viene elaborata in tandem con la Commissione.
La cosa fondamentale da capire è che il Governo è divenuto parte integrante della Governance Multilivello che chiamiamo Unione Europea. Non mi dilungo qui sugli studi autorevoli che riguardano la reale natura di queste nuove forme di governo, votate all’instaurazione di un ordine privatistico incentrato sulle libertà di mercato e retto da logiche di risultato e di rendimento che liquidano ogni possibilità di scelta democratica al riguardo.(2) Il Consiglio dell’Unione Europea è composto da tutti i ministri nazionali e il Consiglio dai capi di Stato. Quindi i nostri ministri e il nostro Capo del Governo hanno questo doppio ruolo. Che facciano l’interesse nazionale è fuori discussione. E’ reso impossibile. Primo perché sarebbe contro lo “spirito dei trattati”, superiore alla volontà e alle necessità reali dei cittadini europei. Secondo perché sono sotto ricatto continuo: lettere e ammonimenti, procedure di infrazione, BCE che non acquista titoli, flessibilità di bilancio negata. Non va nemmeno ignorata la questione del clientelismo che in Europa raggiunge livelli imbarazzanti. Dalle sliding doors all’influenza enorme esercitata dalle lobby nella formulazione delle proposte di legge della Commissione, attività sdoganata moralmente e perfino promossa dalla Corte Europea di Giustizia.
Bastone e carota è la sintesi perfetta che descrive le relazioni disfunzionali e, talvolta, persino comiche tra Governo Nazionale e Governance Europea.
Il Governo è la testa di ponte dell’Unione Europea nel paese e non può essere viceversa, come qualche benpensante ci invita a credere, dal momento che lo squilibrio di forze è palese. Pensiamo solo alla perdita della sovranità monetaria. Per finanziarci dipendiamo dai mercati speculativi e dal programma di acquisto della BCE. Suo compito è perseguire l’attuazione di un modello economico e sociale basato su principi liberisti opposti a quelli costituzionali tramite le riforme. Compresa questa. Non a caso la chiedono Confindustria e le grandi banche d’affari, perché riduce la variabile di rischio nella formulazione delle loro azioni speculative. La stabilità di governo è una sicurezza previsionale sulle decisioni e le politiche che verranno applicate in un paese. Nel linguaggio dei mercati significa affari d’oro, per i cittadini significa impossibilità di ottenere una reversione in loro favore. E non basta la propaganda economica a nascondere la triste realtà di un paese a crescita zero, con una disoccupazione galoppante, una sfiducia al consumo senza precedenti, un senso di precarietà diffuso e perfettamente razionale con questi numeri e queste prospettive. Il popolo ragiona di pancia, ma difficilmente la pancia sbaglia. Soprattutto se è vuota. I ristoranti sono pieni. Sì, di gente che spende la metà rispetto all’anno precedente a parità di coperti.
Le appendici al DEF (A e B) riportano il quadro di avanzamento delle riforme strutturali (3). Eventuali margini di flessibilità vengono concessi sulla base di questi avanzamenti, nient’altro. Catastrofi naturali o emergenze sociali non pesano sul piatto della bilancia. I modelli su cui sono sviluppate sono basati su teorie economiche (neoclassiche e monetariste) che dovrebbe stare nel cestino della storia per inconsistenza teorica e risultati fallimentari.
Non sto dicendo che gli economisti mainstream sono ignoranti o ottusi, sto dicendo che probabilmente sono in malafede. In particolare il modello QUEST III, che viene citato come riferimento, è sviluppato dalla stessa Commissione Europea. Ogni riforma economica e strutturale ci viene imposta su queste previsioni economiche che rispondono a criteri di competitività, riduzione del deficit, ridimensionamento di tutto il settore pubblico con le liberalizzazioni, contenimento salariale e dell’inflazione basato su percentuali di disoccupazione di “equilibrio” Nawru (10.5%), che sono di fatto quote di disoccupazione obbligatoria stabilite sempre da lei, la Commissione.
Una delle idee alla base della famiglia di modelli di cui fa parte anche QUEST III – i modelli DSGE – è che esista un tasso di disoccupazione strutturale per ogni economia, oltre il quale abbattere ulteriormente la disoccupazione genererebbe inflazione, e che quindi diviene un limite inferiore ad eventuali politiche espansive poste in essere dai governi. Il concetto di Nawru è stato criticato più volte da economisti anche molto diversi fra loro, e basta osservare come viene calcolato per comprendere come si tratti di una formulazione avulsa dalla realtà: per calcolarlo, infatti, si opera una sorta di media mobile dei tassi di disoccupazione registrati in passato. Invece di essere considerato un parametro non influenzato dal ciclo economico (proprio perché strutturale), esso diventa nella pratica un parametro pro-ciclico, che quindi condanna i governi ad avere meno spazio di manovra quando l’economia peggiora. Esattamente il contrario di quanto si dovrebbe fare, in contesti di recessione.
L’unico modo per opporre resistenza a queste pressioni e mantenere un po’ di spazio di manovra per perseguire politiche economiche sociali è avere un Parlamento forte. L’opposto di quello che ci viene proposto.
Non è tollerabile per un Parlamento che deve rappresentare il Popolo Sovrano dover accettare leggi vergognose, ricatti e disumane scelte di Sophie su chi deve sopravvivere e chi no. E questo con la Riforma proposta diventa più difficile. E mi preme sottolineare che non sarebbe un atteggiamento “irresponsabile”, come speso viene definito, non senza una motivazione d’interesse specifico che non è l’interesse pubblico. I mercati ci possono danneggiare, ma fino ad un certo punto. La Grecia è forse l’esempio che dimostra come arrendersi ai mercati sia la tragedia vera. La sostenibilità economica è una scelta politica, non c’è nessun vincolo insuperabile.
I presunti “vincoli”, i criteri di sostenibilità tanto declamati, derivano da ipotesi formulate su modelli pretestuosi e arbitrari, nel senso che qualcuno li ha definiti politicamente come tali. La politica domina l’economia, non è il contrario, dall’alba dei tempi. I nostri figli scontano solo ed esclusivamente la nostra codardia, l’incapacità di farci attori del presente anziché spettatori terrorizzati e passivi rispetto alle scelte di altri, più sfrontati e violenti nell’affermare il proprio predominio, che porta a scelte davvero nefaste e insostenibili nel lungo periodo. Parafrasando Keynes, “nel lungo periodo saremo tutti morti” di disperazione e vergogna, per quello che avremo fatto a noi stessi e a quelli dopo di noi.
L’interesse pubblico è ad uno stadio terminale. La riforma ci mette la pietra tombale sopra.
La vittoria del SI sarebbe una sconfitta sociale ed economica per il paese e ci condannerebbe ad anni di recessione economica e regresso sociale.
Bisogna dire NO.
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