Da DielleMagazine. Giacomo Bracci (Economia per i cittadini) – La pubblicazione dei principali dati macroeconomici italiani da parte dell’Istat sembra ricevere grande attenzione da parte dei quotidiani e delle televisioni, ma alla frequenza della diffusione dei dati si accompagna raramente una loro analisi approfondita.
Leggendo il quadro dei conti economici relativo al III trimestre 2015 si può osservare come il PIL italiano sia aumentato dello 0,2% rispetto al trimestre precedente e dello 0,8% nei confronti del terzo trimestre del 2014. Da ciò è scaturito un generale ottimismo rispetto alle dinamiche di crescita presenti e future, specialmente accoppiando il dato relativo al PIL con quelli relativi all’occupazione: l’input di lavoro utilizzato complessivamente dal sistema economico registra aumenti dello 0,1% su base congiunturale (ovvero, rispetto al trimestre precedente del 2015) e dell’1,2% in termini tendenziali (ovvero rispetto allo stesso trimestre del 2014).
L’effetto positivo della crescita, seppure contenuto, è associato ad una crescita del tasso di occupazione delle persone tra i 15 e i 64 anni dello 0,1% (al 56,4%), che è però dovuto interamente alla dinamica positiva nella fascia tra i 15-34 anni (+0,7%). Se analizziamo più approfonditamente i dati, osserviamo che la crescita congiunturale degli occupati nel trimestre ha interessato esclusivamente gli uomini e, tra le diverse tipologie, soltanto i lavoratori dipendenti (+0,3%, che corrispondono 51 mila lavoratori), a sintesi dell’aumento della componente a termine (+4,5%, 107 mila unità) e della riduzione dei dipendenti a tempo indeterminato (-0,4%, 55 mila unità).
Ciò offre un quadro dell’economia italiana assai poco ottimistico: a fronte dell’interruzione dell’aumento dei disoccupati e degli scoraggiati, il Paese crea pochi posti di lavoro e generalmente caratterizzati da contratti a termine, mentre l’occupazione stabile a tempo indeterminato diminuisce. Peraltro, la dinamica del PIL in termini congiunturali risulta trainata principalmente dalla crescita dei consumi (+0,4%), mentre gli investimenti fissi lordi hanno segnato una flessione esattamente identica con segno opposto (-0,4%); riguardo alle componenti estere, le importazioni sono aumentate dello 0,5% e le esportazioni sono diminuite dello 0,8%.
Se quindi non si vedono segnali di carattere rivoluzionario rispetto agli andamenti del mercato del lavoro, nemmeno la quasi-stagnazione del PIL offre ottimi auspici, in quanto le componenti relative agli investimenti, che offrono la misura di quanta nuova capacità produttiva viene installata nel paese, appaiono deboli specialmente nel settore dei macchinari e attrezzature e delle costruzioni.
Un contributo fondamentale alla crescita dei consumi e degli investimenti fissi in mezzi di trasporto è sicuramente proveniente dalla dinamica al ribasso dei prezzi del petrolio, il quale in definitiva si può considerare come la vera componente esogena che ha consentito al Paese di non precipitare nuovamente in territorio negativo in termini di PIL.
Tuttavia, nemmeno i bassi prezzi del petrolio possono considerarsi come un fattore univocamente positivo per l’economia italiana e globale. In teoria, il crollo dei prezzi del petrolio può fornire uno stimolo alla domanda globale in quanto trasferisce reddito dai ricchi fondi sovrani dei Paesi produttori di petrolio ai consumatori, che possono spendere una porzione maggiore del proprio reddito.
Ma, come fanno notare gli analisti di Credit Suisse in un rapporto dell’ottobre 2015 rilanciato da Bloomberg, l’effetto complessivo di questa dinamica dei prezzi a livello globale si è rivelato negativo ed esattamente pari al -0,2% per la domanda mondiale. Ciò è dovuto prevalentemente al fatto che mentre la prima parte del fenomeno appena descritto si è realizzata, ovvero la diminuzione del reddito dei produttori, la seconda stenta ad arrivare ed è invece sostituita da un crollo degli investimenti in capitale durevole, che come abbiamo visto rimane debole anche in Italia. Le spese per investimenti in capitale durevole rappresentano circa il 30% degli investimenti globali, e gli investimenti legati al petrolio sono diminuiti del 13% su scala globale, con un impatto negativo soprattutto sulla dinamica del PIL americano come rimarcato già un anno fa dall’economista e professionista finanziario Warren Mosler, e con un effetto senz’altro depressivo sulla dinamica dei prezzi dell’Eurozona, che si trova già in una sostanziale deflazione.
I consumatori europei e mondiali stanno spendendo molto meno di quanto ci si attendesse a seguito del crollo dei prezzi petroliferi, proprio perché mancano componenti della domanda in grado di aumentare in maniera significativa i redditi disponibili e le aspettative di profitto. Entrambe queste dimensioni possono crescere significativamente, nel quadro attuale, soltanto grazie ad un maggiore livello di deficit praticato a livello di Eurozona. Ma le tendenze politiche prevalenti all’interno delle istituzioni europee, in seguito all’istituzione del Fiscal Board che si occuperà di effettuare severi controlli sui bilanci nazionali (e rispetto al quale ci sono molti dubbi in merito alla legittimità democratica, già sollevati dalla Commissione Affari economici e monetari dell’Europarlamento), non sembrano accettare l’idea che solo i bilanci pubblici in questa fase possono dare impulso ad un’economia europea stagnante.