* laureato in Economia e governance del territorio all’Università del Sannio con una tesi che riprendeva alcuni temi della Mmt, si è dedicato successivamente all’approfondimento dell’economia politica ed ora collabora con il Gruppo Territoriale Campania

Nella migliore tradizione del tipico compromesso italiano, a luglio è cominciata la raccolta delle firme per poter indire un referendum abrogativo della legge n. 243 del 2012. In pratica si puntava ad annullare alcune disposizioni attuative del principio di equilibrio dei bilanci attraverso la procedura della consultazione popolare. Alla scadenza dei tre mesi utili la raccolta delle adesioni si è fermata a 400 mila firme circa, numeri di tutto rispetto ma insufficienti allo scopo.

Tuttavia reputo particolarmente importante affrontare gli argomenti esposti all’incontro organizzato dal comitato “Referendum Stop Austerità” il 19 settembre presso l’aula consiliare della Provincia di Benevento. All’evento campano sono emersi tre livelli di analisi su cui basare le mie critiche.

Al livello più basso, quello meno rilevante poiché totalmente lontano e slegato dal reale problema della disoccupazione, possiamo criticare le osservazioni del Sottosegretario Umberto Del Basso De Caro (PD) il quale disamina alcuni “slogan” completamente fuori obiettivo e contrari a qualsiasi principio di logica. Se lo scopo è quello di ritrovare posti lavoro attraverso la crescita, e per questo è importante allentare l’austerità, non ha molto senso affermare che bisognerebbe spostare la tassazione dai redditi ai patrimoni (e nello specifico in una nazione come l’Italia in cui la prima casa di proprietà costituisce, sommata all’istituzione “famiglia”, il più importante ammortizzatore sociale in tempi di crisi), ridurre al minimo il welfare, lavorare con l’Europa ed escludere gli investimenti dal patto di stabilità.

Questo tipo di convinzioni, totalmente mercatiste, sono state oramai pienamente smentite sia a livello scientifico, da tante rilevazioni empiriche, sia dalla crisi economica, che dal 2007 in poi ha messo in discussione il modello capitalistico puro. Inoltre, permanendo nella logica del pareggio di bilancio a tutti i costi, sarei davvero curioso di sapere come questa possa conciliarsi con una tassazione di tipo patrimoniale che restituisce un gettito di gran lunga inferiore a quella reddituale.

La seconda disconnessione dalla realtà del Sottosegretario beneventano, che riflette la generale lontananza del Partito Democratico dalla vita reale dei cittadini, è l’idea secondo cui la questione dell’articolo 18 dovrebbe essere de-ideologizzata e lo Statuto dei lavoratori riformato in quanto “vecchio” poiché risalente ad una legge del 1970 e rielaborato per rispondere al cambiamento generale del lavoro; di pari passo dovrebbe seguire un aumento del costo del lavoro per i lavori a progetto.

Un aumento degli oneri a carico dei datori di lavoro avrebbe probabilmente come effetto principale una riduzione dell’uso di tale forma di rapporto lavorativo senza tuttavia poter ricorrere a forme alternative di rapporto. Un tale provvedimento sarebbe un vero e proprio incentivo ulteriore al lavoro nero. In realtà il punto focale, che sembra non essere ben chiaro, relativamente alla questione del lavoro sommerso e del lavoro precario, è la debolezza della domanda nazionale di beni e servizi e l’estrema pressione fiscale, divenuta insostenibile data la attuale configurazione di pil, domanda interna e popolazione. Inoltre esistono una miriade di tasse occulte che erodono i redditi senza tuttavia essere considerate nel calcolo della pressione fiscale reale, che è ben maggiore di quella nominale.

Per non parlare dei numerosi studi scientifici che hanno dimostrato che l’aumento della flessibilità non comporta affatto un aumento dei posti di lavoro come affermato dal dogma della “precarietà espansiva”. Come ci ricorda il ricercatore Emiliano Brancaccio, in uno studio condotto dagli economisti Boeri/van Ours viene rilevato che su 13 paesi analizzati la precarizzazione del lavoro restituiva risultati indeterminati in 9 casi e addirittura in 3 casi la maggiore flessibilità portava ad un aumento della disoccupazione. Un altro studio del professor Realfonzo e del ricercatore Guido Tortorella Esposito nel quale si disamina, sulla base di indicatori scientifici adottati dall’Ocse, il grado di protezione dei lavoratori con contratti a tempo indeterminato, mostra come la protezione dei lavoratori in Italia sia già in linea con la media europea ed inferiore a quella di Francia e Germania. Come anche già affermato dal capo economista del FMI Oliver Blanchard, è evidente che non esiste alcuna correlazione tra grado di protezione dei lavoratori (Epl) e disoccupazione.

Ad un livello intermedio della discussione possiamo invece posizionare la comprensione della dinamica della crisi. Sia il professor Realfonzo che il rappresentante regionale della CGIL Tavella hanno analizzato approfonditamente le cause della crisi, esaminando numeri e criticando fermamente il lavoro dei vari governi tecnici susseguitisi dal 2011 in poi. Realfonzo ha ricordato che mentre in Europa si faceva “austerity” negli Stati Uniti ben 5 premi Nobel per l’economia scrivevano al Presidente Obama spiegando le ragioni per cui non si sarebbe dovuto perseguire una politica fatta di tagli in un periodo di recessione. «Ovviamente, per chiunque non abbracci dogmi economici, è facile riconoscere che la causa della lunghissima recessione dei PIIGS è stata proprio la politica di tagli alla spesa pubblica imposta dagli istituti internazionali come FMI e Commissione UE».

Il professore ha anche ricordato che la soglia da rispettare del 60% del rapporto debito/pil non ha alcuna valenza scientifica (come dimenticare la clamorosa svista commessa dagli studiosi Reinhart e Rogoff nel loro lavoro Growth in a Time of Debt nel quale per “errore” presero una cantonata pazzesca suscitando l’ilarità dell’intera comunità scientifica).

Realfonzo ha inoltre spiegato che la spesa dello Stato è reddito per famiglie ed imprese e che quando lo Stato taglia si determina un processo moltiplicativo negativo; effetto regolarmente sottostimato da tutte le principali istituzioni macroeconomiche ufficiali. Come non trovarsi d’accordo con Realfonzo quando afferma che «uno studente che all’Università del Sannio ad un quesito di macroeconomia commettesse lo stesso errore previsionale come quello commesso da Monti per ben 45 mld ed inserito nel Salva Italia sarebbe stato bocciato». Il perché tanti errori da parte del FMI, Commissione e BCE sta nel fatto che hanno abbracciato ciecamente i principi monetaristi e la teoria dell’austerità espansiva.

Infine, un’altra considerazione di buonsenso è che i tagli agli sprechi siano leciti e legittimi purché reinvestiti in altre voci di spesa più efficienti.

Nonostante anche questa affermazione vada sottoscritta pienamente, è sulle conclusioni emerse in quel dibattito che nascono le divergenze più importanti.

Per Realfonzo l’euro andrebbe in crisi se si continuasse sulla strada dell’austerità e quindi la proposta referendaria andava nella direzione di salvare l’euro.

Personalmente, dissento da questa affermazione in quanto la possibilità di permettere ai cosidetti PIIGS di aumentare i propri deficit di spesa non farebbe altro che acuire di nuovo gli squilibri tra i vari stati dell’Unione, aumentando il divario centro-periferia, facendo peggiorare le bilance commerciali degli stati periferici ed infine, attraverso il meccanismo TARGET 2, generando una accelerazione degli squilibri nei bilanci degli istituti bancari, rivitalizzando le ondate speculative. Inoltre questo farebbe saltare tutti i meccanismi comuni di garanzia e di riallineamento come LTRO della BCE e l’ESM. Sebbene questo, a mio avviso, possa spingere per la deflagrazione dell’eurozona non è questo il modo attraverso cui dovremmo auspicarci che essa avvenga.

Giungiamo quindi al livello, a mio dire, più alto della discussione, in cui vorrei focalizzarmi su ciò che non si è analizzato in quella discussione e che spesso non viene affrontato.

Il problema principale è l’euro.

Secondo le teorie non ortodosse, tra cui anche la Modern Money Theory, la separazione tra politica fiscale e politica monetaria che caratterizza la moneta unica europea non può essere sanata con interventi della BCE.

Gli Stati si troverebbero quindi a dover scegliere il male minore tra l’aumento dei deficit primari ed i conseguenti attacchi speculativi finanziari rispetto ai quali sono inermi o le politiche di austerità con conseguente recessione e deflazione. La bontà delle teorie non ortodosse è riscontrabile nel fatto che dal 2007 ad oggi hanno spiegato meglio di quelle ortodosse monetariste gli effetti sull’economia reale delle politiche di austerità fornendo interpretazioni preventive dei principali indicatori macroeconomici più coerenti con quelli effettivi a consuntivo.

Tali teorie spiegano in maniera molto articolata anche i motivi per cui l’euro non potrà mai funzionare. Per questi motivi trovo incoerente per chi ha una formazione eterodossa decidere di continuare ad aderire alla istituzione della moneta unica, come trovo abbastanza incoerente decidere di criticare l’austerità ma di rimanere ben ancorati a questa Europa. Prendiamo ad esempio cosa è stato imposto alla Grecia: tagli indicibili alla spesa sanitaria e compressione delle garanzie sociali proprio mentre il numero di disoccupati aumentava vertiginosamente e la domanda interna crollava rapidamente. In pratica la crisi aggravata sensibilmente dalle politiche austere imposte dalla Commissione europea ha distrutto tutto quello che rendeva la Grecia uno stato degno di definirsi occidentale e l’Europa, la stessa Europa cui noi aderiamo, detiene fortissime responsabilità in quei sacrifici economici, finanziari ed umani imposti al popolo greco. Come conciliare la critica all’austerità se imposta alla nostra nazione ma continuare a partecipare e sostenere quelle stesse istituzioni che hanno generato il disastro greco?

Reputo che le evidenze economiche e sociali non lascino spazio a dubbi: la moneta unica va abbandonata. E giunti a questo livello di analisi, le discussioni dovrebbero elevarsi e concentrarsi sulle modalità di uscita dal meccanismo dell’euro e sull’idea di nuovo Stato che vogliamo. Bisognerebbe confrontarsi su quale ruolo riservare alla moneta nel nuovo stato indipendente, bisognerebbe discutere se ristabilire una moneta ancora una volta serva dei poteri finanziari o se creare una moneta che sia il mezzo a disposizione del governo per perseguire il benessere sociale e il pieno impiego; se difendere le categorie sociali deboli o difendere maggiormente gli interessi delle banche; se aderire al libero mercato ritirando lo Stato dalla maggior parte dei settori, compresi quelli strategici, o se ritagliare un nuovo ruolo dirigista e pianificatore al futuro stato sovrano.

(fonte foto http://www.syloslabini.info/)

Fiscal compact

Mi piace comunque osservare che la crisi ha portato almeno qualcosa di positivo in Italia: ha risvegliato molte coscienze dando vita, almeno in rete, a molti approfondimenti sul ruolo della moneta e al suo funzionamento in una economia monetaria moderna e alla discussione su molti principi e valori che da anni erano stati esclusi dal dibattito politico. L’aspetto invece più negativo che caratterizza il nostro paese è l’assenza di una rappresentanza politica di critica sull’euro.

Mentre in Inghilterra e in Francia, e da poco anche in Germania, i partiti critici verso la moneta unica, benché non detengano ruoli di potere, costringono i governi a ribellarsi ai diktat europei come conseguenza della perdita di consenso (vedere la critica all’Europa cui la forza dilagante dell’Ukip ha costretto Cameron o la decisione francese di non rispettare il patto di stabilità derivante dalla popolarità del FN), in Italia manca proprio questa spinta a ribellarsi alle distruttive imposizioni economiche.

Se l’austerità è la mela avvelenata che ci viene “offerta”, non possiamo dubitare che la strega, come nella migliore tradizione delle favole, in questo caso, è l’Europa.