Le 7 Frodi Capitali dell’Economia Neoliberista (parte 6 di 7)
La competitività.
(di Marco Cavedon, fonte Me-Mmt Veneto)
Le teorie economiche neoclassiche ci descrivono la competitività del sistema industriale di una nazione (assieme al saldo in attivo col settore estero) come un principio cardine sul quale basare l’economia, come di un qualcosa di cui assolutamente non si possa fare a meno, come il motore primo e ultimo, il solo attraverso il quale un paese può procurarsi le risorse finanziarie di cui abbisogna per garantire alla propria popolazione reddito sufficiente per vivere decorosamente e per poter gestire i servizi essenziali (scuola, sanità ecc.).
Anche questo concetto è del tutto fallace e rientra sempre nella categoria dello stato come buon padre di famiglia, che prima di poter spendere deve incassare e deve costantemente curarsi di mantenere un bilancio in attivo (entrate maggiori delle uscite).
Abbiamo già visto nei capitoli precedenti come un governo che si comporti in tal modo in realtà non agisce in maniera responsabile, bensì, impoverisce su base costante la propria popolazione e la obbliga a procurarsi le risorse essenziali per vivere indebitandosi sempre di più col settore privato finanziario, o puntando sul modello del super export, che si basa principalmente sulla deflazione salariale (come è avvenuto nella stessa Germania) e sull’abbattimento della domanda interna (per poter esportare beni reali bisogna far sì che all’interno della nazione non vengano consumati in grandi quantità).
Vedremo in questa sede come il modello del super export adottato anche qui nella “civile” Europa di fatto non migliora i parametri economici e la ricchezza della popolazione, bensì li peggiora.
Ma prima di tutto osserviamo il caso del paese più ricco al mondo, ossia gli Stati Uniti D’America, con un PIL (prodotto interno lordo, corrisponde al reddito totale prodotto all’interno di una nazione) circa il doppio di quello della Cina, un paese che ha una popolazione quattro volte maggiore.
Il seguente grafico riporta i saldi settoriali degli USA nel corso degli ultimi decenni:

Saldi_USA

La linea azzurra rappresenta il saldo degli scambi finanziari degli USA con l’estero (quindi anche il bilancio import-export, dato dalla competitività delle aziende statunitensi) e si può benissimo notare come sia sempre stato pressoché pari a zero e spesso nettamente in rosso. Ciò significa che gli Stati Uniti, per diventare quel grande paese che ancora oggi sono (pur con tutti i grandi limiti insiti all’interno di questo stato e del suo modello di sviluppo economico) hanno di fatto speso in deficit la loro moneta sovrana e non si sono basati sul modello (fallimentare) del super export. Dal grafico infatti è ben visibile come il saldo in negativo del governo (spesa in deficit) rappresenti sempre l’attivo del settore privato (non governativo), mentre, quando il governo realizza degli attivi (fine anni ’90 ed inizio anni 2000) di fatto il settore privato ha un saldo in rosso, quindi si indebita sia con sé stesso, sia con il resto del mondo e non a caso la genesi della crisi finanziaria che poi esplose nel 2007 ebbe inizio proprio in quegli anni, in cui gli USA tentarono di ripagare il loro “debito pubblico”. Una cosa analoga avvenne negli anni precedenti a quelli della grande depressione del 1929.
Vediamo ora il caso di un altro grande paese, ora distrutto dalle logiche neoliberiste dell’Unione Europea ma che fino a poco più di un decennio fa era una della prime economie al mondo in termini di PIL.
Di seguito si riporta l’andamento del current account (bilancio con l’estero) dell’Italia dagli anni ’40 del secolo scorso fino ai giorni nostri:

CA_Italia

Come si evince dal grafico sopra, durante il periodo del boom economico (anni ’50 fino a circa metà anni ’70 del secolo scorso) l’Italia era in una condizione di forte passivo nella sua bilancia con il settore estero. La competitività delle nostre aziende (che pure era una realtà) non ci consentiva di mantenere col settore estero un saldo in attivo. Lo sviluppo economico e l’arricchimento dell’Italia fu quindi dovuto in grandissima parte alla spesa pubblica e al suo costante sostegno al nostro sistema industriale, assieme ai consumi interni.
Di seguito si riporta l’andamento della variazione percentuale annuale del PIL in Italia durante il periodo del cosiddetto boom economico:

PIL_Ita1
Dati Banca Italia (PIL a prezzi costanti)

Di fatto con una bilancia commerciale che non ci consentiva di avere una posizione in attivo degli scambi finanziari con l’estero (ricordiamo che nel current account sono inclusi anche i redditi prodotti da cittadini residenti in Italia che lavorano all’estero e i redditi esteri da capitale), l’Italia in quegli anni ha avuto il suo più alto livello di sviluppo economico, con aumenti percentuali annuali del PIL quasi sempre superiori al 5%. Furono gli anni in cui il nostro paese diventò una delle maggiori potenze economiche a livello mondiale.
Viceversa, negli anni ’80 e soprattutto negli anni ’90, l’Italia cominciò ad adottare quelle politiche basate sul contenimento della spesa pubblica, sulla deflazione salariale (eliminazione della scala mobile, avanzo primario e riduzione del debito pubblico) e sulle esportazioni (bilancia con l’estero in attivo) tipiche dell’ideologia economica neoclassica, come si evince dal grafico sopra riportato del saldo delle partite correnti. In quello stesso periodo, di fatto l’aumento percentuale del PIL subì una forte riduzione rispetto agli anni del boom economico, come si evince dal grafico sotto riportato:

PIL_Ita2
Dati Banca Italia

L’aumento percentuale del reddito interno nazionale non raggiunse più i livelli pre 1980, anzi, una sola volta superò il valore del 4% annuo e stesso destino seguì la disoccupazione, in costante aumento a partire dagli anni ’80 fino a raggiungere le due cifre negli anni dei governi tecnici e di centrosinistra filoeuropeisti verso la metà degli anni ’90:

Dis_Ita
Dati FMI

La deflazione economica imposta infatti ha portato come risultato al contenimento dei consumi interni (e anche delle importazioni) e all’aumento della competitività internazionale delle aziende, con una bilancia delle interazioni con l’estero in positivo per importare ricchezza finanziaria al netto che però non sarà ripartita equamente tra la popolazione, ma finirà in gran parte nel basket delle aziende esportatrici.
Vediamo ora un caso di sovente citato come esempio da parte della propaganda neoliberista ed europeista, ossia la Cina, paese che basa la sua crescita economica in una parte consistente sulle esportazioni (ma non solo, come vedremo), mantenendo una forte competitività internazionale grazie all’abbattimento della domanda interna (condizioni di alta indigenza dei lavoratori con PIL pro capite al novantesimo posto nella classifica globale, dietro anche a paesi quali Tunisia, Azerbaijan, Libia e Romania) e ad una valuta debole (vedere grafico sotto per il rapporto tra Euro e Yuan).

Yuan

Di seguito si riporta una serie di dati macroeconomici relativi alla Cina nel ventennio che va dal 1992 fino ad arrivare al 2012. I seguenti dati sono molto interessanti in quanto ci consentono di vedere delle cose molto importanti relativi all’economia di una nazione.

PIL_Cina
Dis_Cina
CA_Cina
Spesa_Cina
Dati FMI

Nel primo grafico in alto che rappresenta l’aumento annuale del PIL della Cina, vediamo come il prodotto interno lordo di fatto sia sempre aumentato di anno in anno in modo consistente, non senza però alcuni rallentamenti notevoli, come quello avvenuto in concomitanza e dopo la crisi finanziaria che ha investito tutto il mondo a partire dal 2007. Ciò a testimoniare il fatto che basare la propria economia in gran parte sul saldo positivo degli scambi con l’estero comporta forti limiti allo sviluppo di una nazione, legati a fatti che accadono in altre realtà anche molto distanti e diverse e sulle quali non c’è un potere diretto ed effettivo di intervenire per porre rimedio. In questa occasione, il forte rallentamento delle economie di tutto l’occidente (e non solo) verificatosi a seguito della crisi finanziaria del 2007 ha avuto i suoi effetti negativi sullo sviluppo economico della Cina, il paese con le più alte esportazioni al mondo.
Il secondo grafico relativo alla disoccupazione, ci consente di vedere come l’aumento percentuale del PIL di una nazione non sia affatto un parametro assoluto che definisce il reale grado complessivo della salute di una certa economia. In questo caso, a fronte di aumenti percentuali annuali del PIL molto consistenti, non si è verificato un pari miglioramento dell’occupazione, che anzi è diminuita di anno in anno su base pressoché costante. Da notare inoltre che anche l’occupazione non rappresenta il grado di salute assoluto delle condizioni economiche della popolazione e nel caso cinese abbiamo ampia riprova di questo fatto, alla luce di persone costrette a lavorare in fabbriche “lager” nel nome della competitività globale, senza contare il fatto che le stime fornite dal governo cinese sono tutt’altro che attendibili, considerando gli interessi economici in gioco e il regime dittatoriale di stampo sovietico in vigore in quel paese; si leggano i seguenti articoli:
http://www.liceoberchet.it/ricerche/geo4d_07/gruppoB/fabbriche_lager_cinesi.htm
http://www.repubblica.it/2005/e/sezioni/economia/nostrolusso/nostrolusso/nostrolusso.html
http://www.repubblica.it/tecnologia/2012/09/13/news/un_giornalista_a_foxconn-42475778/
Il terzo grafico mostra il saldo delle partite correnti, senz’altro notevole in quanto ha raggiunto nel 2007 anche una punta pari al 10% del PIL, per poi crollare sempre a seguito della crisi finanziaria globale, ancora a testimoniare il fatto che un’economia che si basa in gran parte sulle esportazioni e gli scambi di capitale con l’estero è soggetta a forti limiti.
Il quarto grafico rappresenta la spesa totale del governo in relazione al PIL ed è interessante notare come anche per la Cina (contrariamente a quanto in moltissimi pensano), una parte molto consistente del PIL è legata alla spesa da parte del governo, in un rapporto anche più di 10 volte superiore rispetto al saldo delle partite correnti ed è interessante vedere come dopo la crisi del 2007, di fatto la spesa governativa sia aumentata pressoché su base costante per tamponare il mancato afflusso di capitali dall’estero. Anche la Cina pertanto (seppure in maniera molto parziale e insufficiente) sta facendo quello che un normale stato sovrano della sua economia dovrebbe fare (e che noi non stiamo facendo), ossia, innalzare la spesa pubblica per evitare il collasso della propria economia.
Osserviamo ora il caso di un altro paese fortemente esportatore (il secondo esportatore mondiale), ossia la Germania, la regina dell’Unione Europea.
A seguito dell’ingresso nella moneta unica euro, la Germania ne trasse un immenso beneficio in termini di competitività, causa una valuta sopravvalutata nei confronti soprattutto delle ex valute sovrane dei paesi concorrenti europei, in particolare dell’Italia e causa le riforme del mercato del lavoro introdotte a partire dagli anni 2000 da  Peter Hartz, consulente del governo Schröder (vedere http://www.linkiesta.it/Peter-Hartz-francia).
Di seguito si riportano i dati macroeconomici della Germania a partire proprio dagli inizi degli anni 2000, in concomitanza con l’introduzione dell’euro e delle misure neoliberiste per il rilancio della competitività dopo quasi un decennio di bilancia dei pagamenti con l’estero in rosso:

CA_GermaniaDis_Germania
 PIL_Germania
Dati FMI

Anche in questo caso, come si vede dai dati di cui sopra un aumento del saldo con il settore estero non necessariamente coincide con un miglioramento anche degli altri parametri economici di una nazione, anzi.
Dal 2000 al 2006, quando il saldo delle partite correnti raggiunge il massimo picco, parallelamente si ha un aumento della disoccupazione che raggiunge le 2 cifre (11%, non molto distante da quella attuale stimata per l’Italia), mentre l’aumento del prodotto interno lordo si attesta su valori inferiori all’1% per la maggior parte del periodo di riferimento. Le riforme neoliberiste in atto in quel periodo di fatto non hanno portato il beneficio sperato all’aumento del reddito nazionale, anzi, precarizzando il lavoro e diminuendo il potere di acquisto reale dei salari (ricordiamo che dal 2004 al 2008 i salari reali tedeschi sono diminuiti molto di più rispetto alle altre maggiori economie europee, vedere qui: http://www.memmtveneto.altervista.org/frodi1.html) si sono depressi i consumi interni e quindi il PIL nazionale non ne ha tratto l’aumento desiderato.
Stessa cosa si è verificata dopo il 2010, in concomitanza con una consistente diminuzione della disoccupazione, che però nasconde milioni di minijobs pagati meno di 500 euro al mese e quasi senza alcuna tutela sociale (http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-09-21/prezzo-minijob-082219.shtml?uuid=AbFzSCZI ).
E anche per quanto concerne la Germania è interessante guardare al dato della spesa pubblica totale e del debito pubblico (che, come già spiegato nella parte 1 di questa serie, rappresenta l’attivo del settore privato).

Spesa_Germania
Dati FMI

Come si evince dal grafico di cui sopra, la spesa pubblica rappresenta la quota maggioritaria del PIL e aumenta in corrispondenza del verificarsi di una crisi economica, come quella finanziaria che iniziò nel 2007 e lo stesso andamento si può osservare per quanto concerne il debito pubblico (dato dalla somma della spesa a deficit da parte del governo di una nazione):

Deb_Germania
Dati FMI

In concomitanza con l’inizio della crisi finanziaria del 2007, la Germania, nonostante la sua competitività, è dovuta anche lei intervenire con una elevata spesa in deficit per risollevare la sua economia e dal 2007 al 2010 si è verificato il maggiore aumento annuo del debito pubblico rispetto tutti gli anni a partire dal 2000.
Dagli esempi sopra riportati si evince pertanto come il saldo delle interazioni con il settore estero in nessun caso contribuisca come quota maggioritaria al reddito di una nazione, anzi, il suo aumento è possibile solo abbattendo il potere di acquisto interno, al fine di diminuire i costi per le esportazioni e la domanda interna (per esportare i beni reali bisogna far sì che il loro consumo dentro una nazione sia basso). Parimenti si può constatare come un aumento del saldo delle partite correnti non porti affatto necessariamente ad un miglioramento dell’occupazione, né tantomeno delle condizioni di vita della popolazione.
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