Ancora sui falsi miti del Divorzio tra Banca Italia e Ministero del Tesoro del Luglio 1981.

(edizione Filippo Abbate, revisione Marco Cavedon)

 
Come già abbiamo ribadito varie volte nel corso dei nostri articoli, nel luglio del 1981 si verificò un evento molto importante nella storia dell’economia del nostro paese, ossia, il cosiddetto “Divorzio” tra la nostra Banca Centrale (Banca Italia) e il Ministero del Tesoro.
Fu di fatto una delle prime di tutta una serie di politiche successive di adesione ad accordi sovranazionali che culminarono con l’entrata in vigore nel 2002 della moneta unica Euro, che sancì la morte definitiva della nostra autonomia di spesa come stato sovrano.
Va tuttavia sottolineato che ogni Banca Centrale è “autonoma” solo nella misura in cui lo permette il governo di quel determinato paese, che in ogni momento può regolare la sua attività a seconda dei fini che esso si propone. Il nostro referente economico nazionaleDaniele della Bona in questo articolo (https://mmtitalia.info/la-banca-centrale-e-indipendente-se-anche-fosse-ma-da-chi/) ha ben descritto questo concetto, che vedremo in questa sede di sviluppare ulteriormente.
Con la riforma del mercato dei BOT (titoli di durata fino ad un anno emessi dal governo italiano) del 1975, Banca Italia era costretta ad acquistare in asta primaria (cioè in prima emissione) tutti i titoli che il Tesoro non era riuscito a collocare sul mercato, finanziando quindi lo stesso con nuova moneta emessa dal nulla. Ciò consentì al Tesoro di mantenere in quel periodo contenuti tassi di interesse con i quali “finanziarsi”; ricordiamo tuttavia che operativamente un governo sovrano non sarebbe affatto obbligato ad emettere titoli per finanziarsi, dal momento in cui prima di ritirare la moneta dal settore privato deve emetterla, mentre la prassi di vendere titoli alla sua Banca Centrale è una mera costrizione autoimposta.
Tuttavia l’economia mainstream, preoccupata dagli alti tassi di inflazione di quel periodo, erroneamente li attribuì alle politiche di spesa pubblica facilitate dallo stretto controllo del Tesoro sulle operazioni della Banca Centrale e quindi all’inizio degli anni ’80 si giunse al cosiddetto “Divorzio” (per le reali cause dell’inflazione in quel periodo vedere anche qui: https://mmtitalia.info/i-salari-reali-italiani-e-la-piu-iniqua-delle-imposte-linflazione-parte-2/).
Nella “Relazione Annuale per il 1980” Ciampi, all’inizio del suo mandato come governatore della Banca d’Italia, nell’individuare le cause e la cura dell’inflazione sostiene una maggiore determinazione nell’applicare una politica monetaria restrittiva, funzionale agli accordi delloSME, cioè di un sistema a cambi semifissi con le altre valute europee che il nostro paese sottoscrisse nel 1979, al fine di ridurre il gap inflazionistico tra l’Italia e gli altri paesi.
Col Divorzio tra Banca Italia e Ministero del Tesoro, sancito in maniera consensuale tra l’allora Ministro del Tesoro Beniamino Andreatta eCarlo Azeglio Ciampi, la nostra Banca Centrale non fu più costretta ad acquistare in asta primaria i titoli invenduti.

Ciampi

Nei fatti però ciò avvenne in maniera graduale, in quanto Banca Italia poteva continuare ad intervenire in asta se lo avesse ritenuto coerente sia con gli obiettivi di politica monetaria, sia con gli obiettivi economici del governo.
nella realtà così fece, in quanti la riforma parte nel luglio 1981, ma fino al 1988 Banca Italia continuò ad acquistare sul mercato primario tutti i titoli invenduti del Tesoro che essa voleva al fine di mantenere il massimo tasso di interesse entro certi limiti (quelli nei quali si era costretti dallo Sme).
Il grafico sotto riportato (tratto dal seguente articolo di Daniele della Bona (https://mmtitalia.info/come-si-finanziava-litalia-prima-del-divorzio-fra-tesoro-e-banca-ditalia-parte-5/) mostra l’ammontare netto di titoli di stato acquistati dalla Banca d’Italia (cioè la differenza fra i titoli acquistati dalla Banca Centrale e quelli ripagati dal Tesoro alla banca stessa) sul mercato primario (in blu) e di quelli scambiati sul mercato secondario da parte della Banca d’Italia con le banche commerciali (in grigio).

 Banca d'Italia anni 80

La figura conferma che gli acquisti di titoli di Stato al netto sul mercato primario da parte della Banca d’Italia sono progressivamente aumentati durante gli anni settanta, raggiungendo il picco nel 1981, poi si sono rapidamente ridotti a partire da pochi anni dopo il “divorzio” (cioè da quando la Banca d’Italia non era più costretta a garantire in asta il collocamento integrale dei titoli emessi dal Tesoro, ma poteva intervenire in via facoltativa), sebbene siano rimasti positivi per il resto del decennio.
Ad ulteriore conferma di quanto sopra esposto si citano anche le seguenti fonti.

Banca d'Italia acquisti anni 80

Fonte: L’indipendenza della Banca d’Italia dal Governo negli anni Ottanta: cause interne e internazionali – Maria Luisa Marinelli
Come si può notare nel riquadro sopra evidenziato in rosso, gli acquisti al netto in asta primaria di Banca Italia sul mercato primario sono continuati anche dopo il Divorzio per quasi tutti gli anni ’80 e addirittura dal 1981 al 1984 sono stati superiori rispetto agli anni dal 1977 al 1980, cioè in piena fase “pre-divorzio”.
E non solo. L’Italia in quegli anni non possedeva solo il canale di vendita di titoli alla Banca Centrale come fonte per ottenere nuovo denaro,ma possedeva anche un Conto Corrente di Tesoreria sul quale poteva ottenere da Banca Italia un finanziamento allo scoperto per un importo fino al 14% delle previsioni di spesa. Dopo il cosiddetto divorzio di fatto tale limite fu innalzato. Le seguenti citazioni sono tratte dal documento “Banca d’Italia e Tesoreria dello Stato: vicende storiche, riforme e prospettive a cura di Pasquale Ferro (pag. 77-81)”
Dal 1981, l’abbandono della prassi secondo la quale la Banca partecipava all’asta dei BOT con una richiesta pari all’intero ammontare della tranche emessa […], metteva in evidenza lo squilibrio di fondo delle operazioni della tesoreria statale e le difficoltà di collocare sul mercato titoli in quantità adeguate a coprire il fabbisogno del Tesoro. Nel 1982, con l’ulteriore dilatarsi del deficit, gli sconfinamenti (rispetto al limite sul massimo scoperto del Conto di Tesoreria, nda) divennero sistematici a partire dal mese di settembre; alla fine di questo mese e nei successivi la Banca dovette attivare la comunicazione dello sconfinamento prevista dalla legge del 1948. I rientri avvennero con difficoltà e per un numero limitato di giorni, dando luogo a successivi sconfinamenti che non vennero meno nemmeno a dicembre, con l’incasso degli introiti fiscali solitamente elevati dall’autotassazione di novembre: apparve chiaro che il Tesoro non era in grado di rientrare entro il limite, date le previsioni sugli incassi e pagamenti del mese di dicembre e le emissioni nette di titoli programmate e pertanto un’anticipazione straordinaria da parte della Banca fu l’unico strumento possibile per superare l’emergenza dei conti pubblici di quell’anno considerato anche che le tensioni sul conto corrente, secondo le previsioni, non si sarebbero allentate nel trimestre successivo. L’anticipazione fu votata dal Parlamento per un importo di 8 mila miliardi di lire con durata 12 mesi e tasso di interesse all’1 per cento. Negli anni successivi il limite, a causa del meccanismo che lo legava in modo automatico alla crescita della spesa dello Stato, crebbe fino a raggiungere la cifra di oltre 70 mila miliardi di lire nel 1993, anno della sua abolizione.” […]
“Il passaggio dal “conto corrente di tesoreria” al “conto Disponibilità del Tesoro” (avvenuto con la legge n. 483 del 1993, nda) avvenne secondo modalità stabilite dallo stesso provvedimento legislativo. Il debito monetario del Tesoro verso la Banca d’Italia, accumulato come saldo passivo sul conto corrente di tesoreria (che ammontava a 76.206 miliardi di lire), fu trasformato in titoli di Stato assegnati all’Istituto di emissione, di durata variabile e cedole annuali).
Dalle citazioni di cui sopra vediamo pertanto che la spesa a deficit da parte del governo non si abbassò affatto dopo il luglio del 1981. Fino al 1984 addirittura la vendita di titoli al netto a Banca Italia aumentò e il successivo declino di questa pratica fu compensato dall’aumento del limite di deficit consentito sul Conto Corrente di Tesoreria, che nel 1993 arrivò a superare i 70.000 miliardi di lire. Se osserviamo anche la serie storica della spesa a deficit sul PIL in quegli anni, vediamo come essa fu molto elevata nel corso degli anni ’80  e nel giro di poco più di dieci anni, portò ad un raddoppio del debito pubblico rispetto al PIL (vedere i dati sotto riportati):

Anni 80 dati principali debito pubblico inflazione Pil

Fonte Database AMECO e FMI: http://it.wikipedia.org/wiki/Dati_macroeconomici_italiani
Dai dati di cui sopra pertanto, a differenza di quanto previsto da Ciampi e dall’economia mainstream neoclassica, constatiamo che:
1)    la spesa in deficit dello stato italiano aumentò dopo il divorzio (ricordiamo che la spesa in deficit da parte del governo rappresenta l’attivo del settore privato: https://mmtitalia.info/le-7-frodi-capitali-delleconomia-neoliberista-1-il-debito-pubblico/ );
2)    l’inflazione di fatto calò in maniera pressoché costante, nonostante maggiore iniezione di liquidità da parte del settore consolidato Tesoro e Banca Centrale, al fine anche di pagare gli elevati tassi di interesse sul debito pubblico di quel periodo;
3)    il contenimento dell’inflazione tanto auspicato da Ciampi non si tradusse in un miglioramento assoluto delle condizioni economiche nazionali, con una disoccupazione in costante aumento;
Ma concentriamoci ora su un altro aspetto della nostra discussione, cioè sulle reali cause degli elevati tassi di interesse che il nostro governo pagò sul suo debito dopo il Divorzio.
Come abbiamo visto sopra, l’acquisto netto di titoli del tesoro da parte della Banca Centrale continuò per quasi un decennio dopo il divorzio e dal 1981 fino al 1984 fu addirittura maggiore rispetto al quadriennio precedente (con inflazione in calo, per via del fatto che emettere moneta di per sé non causa inflazione). Nonostante ciò i tassi di interesse aumentarono comunque.
La reale causa di ciò va quindi ricercata in altri contesti che si svilupparono durante gli anni ’80.
Tutto questo infatti accadeva in un decennio di progressiva liberalizzazione dei movimenti di capitale e di vincoli esteri dovuti al cambio semifisso con le altre valute europee (Sistema Monetario Europeo o SME).
Inoltre è utile richiamare il contesto internazionale e interno in cui si realizzò il Divorzio:

  • Verso la fine degli anni ‘70, la politica monetaria statunitense per contenere l’inflazione inizia a perseguire un obiettivo intermedio attraverso lo stretto controllo della    base monetaria (esperimento monetarista) causando un rapido innalzamento tanto dei tassi di interesse a breve quanto dei tassi a lungo termine (la cosiddetta cura Volcker, dal nome del presidente della banca centrale americana di allora ).
  • Gli effetti di ordine macroeconomico prodotti dal percorso di unificazione tedesca, iniziato alla fine del 1989 (necessità di ingenti trasferimenti alla Germania orientale e la forte espansione degli investimenti) hanno indotto la Bundesbank (la banca centrale tedesca) ad adottare una politica monetaria restrittiva.

Il contesto internazionale in definitiva ha prodotto un livellamento dei tassi di interesse verso il tasso del “paese leader” di volta in volta più alto. Il grafico seguente evidenzia la correlazione positiva che i tassi di interesse in Italia hanno presentato con quelli dei “paesi guida”; fino al 1989 con gli USA, ed in seguito con la Germania:

Fonte grafico: http://www.mosaicfinance.net/2013/01/tassi-e-spread-italia-germania/
In alto nel grafico sopra sono visibili i tassi di interesse USA sui titoli di stato decennali, mentre sotto sono visibili i tassi dei titoli decennali dell’Italia (linea verde) e della Germania (linea rossa).
In conclusione, il venir meno nel luglio del 1981 dell’obbligo da parte della Banca Centrale di sottoscrizione dei titoli non assorbiti dal mercato, da un lato non ha determinato l’immediata interruzione degli interventi della stessa sul mercato primario, e dall’altro non è stata la causa principale dell’alto costo del denaroIl divorzio sembra dunque aver giocato un ruolo limitato nell’ambito della determinazione dei tassi di interesse. La politica monetaria restrittiva, applicata dalla Banca d’Italia durante gli anni ‘80, sarebbe comunque avvenuta, a causa delle politiche internazionali ugualmente restrittive (USA), per il rispetto degli accordi di cambio e per la necessaria riduzione del gap inflazionistico tra l’Italia e gli altri Paesi dello SME.
Il sistema monetario europeo, detto anche SME, entrato in vigore il 13 marzo 1979 e sottoscritto dai paesi membri dell’allora Comunità Europea (ad eccezione della Gran Bretagna, entrata nel 1990), costituì un accordo per il mantenimento di una parità di cambio prefissata (stabilita dagli Accordi di Cambio Europei), che poteva oscillare entro una fluttuazione del ±2,25% (del ±6% per Italia, Gran Bretagna, Spagna e Portogallo), avendo a riferimento una unità di conto comune (l’ECU), determinata in rapporto al valore medio dei cambi del paniere delle divise dei paesi aderenti. Nel caso di eccessiva rivalutazione o svalutazione di una moneta rispetto a quelle del paniere, il governo nazionale doveva adottare le necessarie politiche monetarie che ristabilissero l’equilibrio di cambio entro la banda prefissata.
Aderendo allo SME l’Italia si impegnò a mantenere il tasso di cambio nominale entro i parametri di oscillazione stabiliti, mentre quello reale, legato all’inflazione, rimaneva profondamente squilibrato.
Ovvero, in un sistema a cambi fissi, i paesi a più alta inflazione vedranno aumentare il tasso di cambio reale (dato dal rapporto tra il tasso di cambio nominale e l’inflazione) della propria valuta rispetto alla valuta del paese a più bassa inflazione, con conseguente perdita di competitività dei propri beni (praticamente questo significa che con un valore della moneta che non cambia, la maggiore inflazione rende i prezzi per i residenti all’estero più alti).
Fissando il tasso di cambio, si rinuncia a uno strumento efficace nella correzione degli squilibri commerciali e nel controllo del livello di produzione aggregata. In un sistema di cambi fissi, se un Paese ha, per qualsiasi motivo, una tendenza al deficit estero (cosa che avviene facilmente se il cambio non si deprezza come dovrebbe, incrementando così le importazioni e rendendo più difficili le esportazioni), deve difendere il cambio (in quanto una elevata offerta monetaria verso l’estero può determinare un deprezzamento della propria valuta, se essa supera la domanda), e può farlo in due modi: o vendendo le sue riserve di valuta estera (cioè usandole per acquistare la propria moneta, difendendone il valore), o alzando il tasso d’interesse, perché questo invoglia gli investitori esteri a domandare valuta nazionale per comprare titoli di stato che offrono un buon rendimento.
Pertanto ancorandosi a un dato tasso di cambio fisso (o semifisso come in questo caso), si rinuncia anche al controllo del tasso di interesse interno.
Inoltre, il Paese deve seguire l’andamento del tasso di interesse estero (dal quale dipende il valore della valuta estera alla quale è ancorato), correndo il rischio di effetti indesiderati sulla propria attività economica.
In un sistema di tassi di cambio fissi come lo SME (ignoriamo qui per semplicità il grado di flessibilità concesso dalle bande di oscillazione), nessun paese può cambiare il suo tasso di interesse se anche gli altri paesi non fanno altrettanto.
Come cambiano allora in pratica i tassi di interesse? Vi sono due possibili tipi di accordo implicito. Uno prevede che i paesi membricoordinino tutte le variazioni dei tassi di interesse. Un altro prevede, invece, che un paese prenda l’iniziativa (“paese leader”) e gli altri lo seguano a ruota. Questo è proprio quello che è successo nello SME, nel quale è la Germania che ha assunto il ruolo di guida.
Nel corso degli anni Ottanta, gran parte delle banche centrali europee condivideva gli stessi obiettivi ed approvava il fatto che la Bundesbank (la banca centrale tedesca) prendesse l’iniziativa. Ma nel 1990, l’unificazione tedesca ha portato con sé una forte divergenza di obiettivi tra la Bundesbank e le banche centrali degli altri paesi membri. Ricordiamo quali fossero gli effetti di ordine macroeconomico dell’unificazione: la necessità di ingenti trasferimenti alla Germania orientale e la forte espansione degli investimenti hanno portato entrambe a un significativo aumento della domanda nel paese.
Il timore della Bundesbank di un aumento eccessivo dell’attività economica l’ha indotta ad adottare una politica monetaria restrittiva. Il risultato è stato una forte crescita in Germania accompagnata da un brusco aumento dei tassi di interesse. Questo poteva anche essere il giusto mix di politica economica per la Germania. Ma per gli altri paesi, gli effetti dell’unificazione tedesca non erano convenienti. Gli altri stati, infatti, pur non avendo registrato lo stesso aumento della domanda, hanno comunque dovuto adeguare i loro tassi di interesse a quelli tedeschi per rimanere nello SME.
L’aumento dei tassi d’interesse dovuto all’introduzione con lo SME dei tassi di cambio fissi, si tradusse rapidamente in un nuovo grave problema per la politica economica italiana, aumentando il fabbisogno del Tesoro e l’escalation della crescita del debito.
Difendere il cambio favorendo, tramite alti tassi d’interesse, l’afflusso di capitali, cioè l’indebitamento estero, rese fragile il Paese e alla fine lo mandò in pezzi.
Nel 1992, un numero crescente di nazioni doveva scegliere se difendere la parità, oppure uscire dallo SME e ridurre i tassi di interesse interni. Preoccupati del rischio di svalutazioni, i mercati finanziari hanno iniziato a chiedere tassi di interesse maggiori nei paesi dove la svalutazione era ritenuta più probabile. Ne risultò una grave crisi valutaria nell’autunno del 1992  che portò due paesi, l’Italia e il Regno Unito, all’uscita dallo SME.

Tassi Usa Italia Germania
Fonte: http://www.mulino.it/aulaweb/risorse/12798/stud/box_cap18.htm
Lo sganciamento dallo SME frenò la dinamica dei tassi, che a partire dal 1992 cominciarono a scendere:

 La lira esce dallo Sme 1992
La minore spesa per interessi favorì il rientro del debito pubblico, che dai 120 punti del 1994 arrivò ai 103 nel 2003:
La lira fuori dallo Sme, 1992

Fonte dati: http://www.blia.it/debitopubblico/index.php/
La causa degli alti tassi di interesse in Italia durante gli anni ’80 è da ricercare, quindi, nell’assenza di una delle caratteristiche che qualificano una moneta sovrana secondo la ME-MMT, che di seguito ricordiamo:

  •  La moneta è priva di valore intrinseco, quindi non è convertibile (lo Stato non promette di convertirla in oro).
  •  Lo Stato è il monopolista della moneta (l’unica entità che ha il potere di emetterla legalmente).
  • Un tasso di cambio fluttuante (la valuta viene scambiata con altre monete a un tasso stabilito dal mercato come incontro di domanda-offerta); la moneta non è convertibile con altre ad un rapporto fisso.

Durante gli anni ‘80 quale condizione non è stata soddisfatta? 


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