Prima di tutto cominciamo col definire questo famigerato concetto. La spesa pubblica non è altro che la somma di denaro che viene spesa da uno Stato (di solito calcolata nell’arco temporale di un anno) per tutto ciò che ha finalità pubbliche, cioè a vantaggio della collettività. Rientrano in questa categoria quei beni e servizi che uno Stato offre ai cittadini e tutta la macchina costruita per raggiungere tali scopi come salari dei dipendenti pubblici, le pensioni, la costruzione e mantenimento delle strutture e tutta un’altra serie di voci che rientrano nei servizi offerti alla comunità.
In termini contabili si tratta delle “uscite” che vengono registrate come passività. Quando le “uscite”, nell’arco di una anno, superano le entrate, si parla di deficit, uno status che definisce la spesa al netto (delle entrate) del settore pubblico. Chiameremo G, per semplicità narrativa, la spesa dello Stato, cioè le uscite e T le entrate, che corrispondono, nella quasi totalità alle Tasse.
Quando G è maggiore di T avremo, come detto sopra, una situazione di deficit, anche detto disavanzo. Quando saranno pari avremo una situazione di pareggio di bilancio, quando invece le entrate T saranno maggiori di G si avrà un surplus o avanzo di bilancio.
Il reddito totale di un paese si definisce con il termine PIL, prodotto interno lordo e sia G che T concorrono alla formazione di questa misura, poiché T, ovvero le imposte, sottraggono reddito alla collettività e quindi diminuiscono il PIL, mentre G è una parte fondamentale della sua composizione. Possiamo semplicemente dire che la spesa dello Stato, al netto delle tasse, quello che prima abbiamo definito deficit, fornisce un grosso contributo alla composizione del reddito nazionale.
Avremo letto tutti, immagino, che il rapporto tra debito pubblico e PIL (è uno degli indici più importanti da tenere sotto controllo secondo i trattati europei (Maastricht, Patto di stabilità e crescita, Fiscal compact) e sappiamo anche della genialità con cui la nostra classe politica si è affrettata ad introdurre il pareggio di bilancio in Costituzione, recependo senza obiettare, i dettami Europei. Cosa significa tutto ciò? E con questa domanda arriviamo al primo mito da sfatare: il pareggio di bilancio che prevede un aumento dell’imposizione fiscale e tagli alla spesa pubblica fa diminuire il PIL, ovvero il denominatore della frazione debito pubblico/PIL con conseguente crescita del rapporto suddetto, come descritto in modo egregio da Daniele Della Bona in questo articolo.
Con il pareggio di bilancio lo Stato, come descritto sopra, è costretto a far coincidere entrate ed uscite, 100 soldi spende e 100 ne tassa.
In questi ultimi anni, sempre ammaliati dai diktat europei, i nostri politici, coadiuvati da una stampa totalmente asservita, hanno ripetuto costantemente che un taglio alla spesa pubblica fosse necessario per due motivi:
1) La spesa pubblica è brutta e cattiva perché spinge lo Stato ad indebitarsi;
2) La spesa pubblica eccessiva ha portato alla crisi attuale;
3) L’italia spendeva e continua a spendere troppo;
Queste affermazioni sono del tutto false e dimostrandolo sfateremo anche il mito che ci vede come paese di spendaccioni, o peggio ancora, maiali d’Europa.
Senza dilungarci troppo nell’argomento, ricordiamo che la spesa di uno Stato avviene emettendo titoli di Stato (detti anche titoli di debito) con cui un Governo si impegna a restituire, dopo un tempo prestabilito, la somma ricevuta da chi sottoscrive queste obbligazioni più una certa quantità di interessi stabilita a priori. Le domande che dobbiamo porci sono le seguenti: come si calcolano e come vengono stabiliti questi interessi? Cerchiamo di dare una risposta chiara e semplice allo stesso tempo, partendo dalle differenze tra uno stato a moneta sovrana ed uno stato che non può emettere la propria moneta come l’Italia attuale.
Uno Stato che crea dal nulla la propria moneta e in cui opera una banca centrale, cioè un’agenzia governativa che si occupa della politica monetaria, ha la facoltà di decidere il tasso di interesse. In pratica, a seconda delle necessità lo può alzare o abbassare a piacimento e mettere in vendita i titoli senza timore di rimanere senza acquirenti. Perchè questo? La risposta è molto semplice: i titoli di stato, per una nazione a moneta sovrana, non hanno la funzione di finanziare la spesa pubblica, (nessun soggetto si finanzia vendendo un qualcosa per ottenere ciò che può creare da solo) ma quella di essere rivenduti al sistema bancario che necessita della possibilità di un investimento sicuro, il cui rendimento sia sufficientemente adeguato da garantire un guadagno, seppur piccolo. Ciò gli permette, se vuole, di mantenere i tassi molto molto bassi.
Quindi tutti i titoli emessi saranno sicuramente piazzati al tasso di interesse prestabilito nel caso in cui mancassero i sottoscrittori “della prima ora”. Il funzionamento del mercato dei titoli è abbastanza complicato da spiegare in termini semplici, è sufficiente capire che uno Stato a moneta sovrana non corre mai il rischio di rimanere senza soldi a meno che la sua Banca centrale si rifiuti di collaborare e agisca in modo folle.
Per un’analisi più esaustiva dei meccanismi che scaturiscono dai rapporti tra Banca centrale e un Governo, vi rimando all’ottimo articolo di Daniele Della Bona, diviso in più parti, che potete trovare sul sito: https://mmtitalia.info/i-salari-reali-italiani-un-ventennio-perduto-parte-1/
Torniamo a noi, perché una situazione molto diversa riguarda invece l’emissione di titoli da parte di uno Stato dell’Eurozona che non potendo emettere la propria moneta è costretto a chiederla in prestito nei mercati finanziari, nello stesso modo in cui un padre di famiglia chiede un prestito alla sua banca per acquistare un’automobile. E’ fuori discussione che il tasso di interesse, che la banca concederà, non è influenzabile dalla volontà del cittadino privato, che invece subirà la decisione dell’istituto di credito. In poche parole: vuoi un prestito? Il tasso di interesse è questo, se non ti sta bene arrivederci e grazie. Stessa cosa succede per uno Stato che ha bisogno di denaro per effettuare la sua spesa pubblica e solo in questo caso i titoli di debito avranno una funzione di finanziamento della spesa. Senza la vendita dei titoli non può spendere ed è quindi ricattabile dai soggetti autorizzati alla compravendita delle obbligazioni, quello che comunemente chiamiamo mercato.
Perché tutto questa manfrina sui titoli di Stato e gli interessi? Semplicemente perché la spesa per interessi è una delle voci della contabilità di Stato, ovvero fa parte della spesa pubblica. Più sono alti i tassi di interesse più sarà alta la spesa pubblica. Oggi l’ammontare di spesa per interessi dell’Italia è superiore al 5% del PIL.
Secondo mito sfatato: la spesa pubblica sotto forma di debito non è completamente sbagliata di per se e non è neanche brutta e cattiva, è il sistema che impedisce ad uno Stato di decidere i propri tassi di interesse ad esserlo.
Ma non è questo il punto focale. Andiamo avanti.
Vediamo quanto e come spende lo Stato italiano togliendo gli interessi, analizziamo cioè quella che tecnicamente si chiama spesa primaria.
Siamo bombardati da articoli e sedicenti studi che ci “informano” di come la spesa pubblica nel nostro paese sia aumentata a dismisura nell’ultimo ventennio fino a diventare la causa principale della crisi attuale. Abbiamo detto prima che la spesa in deficit dello Stato è una grossa quota che contribuisce ad aumentare il PIL di un paese, quota che non esisterebbe se si perseguisse il pareggio di bilancio o peggio ancora il surplus di bilancio (T > G). E’ necessario, a questo punto, porsi un’altra domanda: dove vanno a finire i soldi spesi dallo Stato? Il deficit di uno Stato è positivo o negativo per i cittadini?
Rispondiamo alla domanda con l’aiuto di un grafico:
La linea più scura che vedete si riferisce al saldo contabile dello Stato italiano, più scende in basso la spezzata, più alto sarà il deficit (G > T).
Di contro, la linea più chiara rappresenta il saldo del settore privato, ovvero cittadini, aziende, famiglie, etc..
Come possiamo vedere più alto è il deficit dello Stato maggiore sarà il guadagno in termini di ricchezza finanziaria di ciò che non è Stato, il che equivale a dire che la spesa in deficit finisce proprio nelle tasche del settore privato. Come può essere una cosa negativa per il cittadino?
Una considerazione importantissima da fare è quella secondo cui la crisi attuale, lungi dall’essere una crisi di debito pubblico, è in realtà una crisi di debito privato. In parole povere le politiche di austerità stanno disastrosamente portando ad una decrescita del reddito nazionale. Chi si trova realmente in crisi sono i cittadini e le aziende che vedono sottrarsi porzioni sempre più ampie di ricchezza finanziaria (salari, guadagni, risparmi) attraverso l’aumento dell’imposizione fiscale e il taglio della spesa pubblica, tanto da non poter ripagare i debiti contratti, né poter fare investimenti e spese che sono il presupposto di un’economia florida. Stiamo infatti assistendo al peggior calo dei consumi dal dopoguerra ad oggi.
La causa di questo disastro economico va ricercata proprio nelle cosiddette politiche restrittive che impongono agli Stati europei una crescente diminuzione del deficit anziché un aumento dello stesso! Imporre agli Stati il pareggio di bilancio non fa altro che deprimere quella che Keynes chiamava domanda aggregata, ovvero la domanda complessiva di beni, prodotti e servizi da parte dei privati. Quali sono le conseguenze di un calo della domanda aggregata? I cittadini spendendo meno, le aziende producono meno, perché non riescono a vendere i loro prodotti e servizi, sono costrette a chiudere, a non assumere personale e peggio ancora a licenziare.
I più maliziosi tra i lettori staranno storcendo il naso chiedendosi per quale motivo starei negando il fatto che lo Stato continua ad essere in deficit senza ottenere i risultati contrari a quanto esposto sopra. In effetti proprio in questi giorni, durante la crisi di governo, il Presidente del Consiglio, Enrico Letta, ha spesso parlato della necessità di rientrare nei parametri imposti dal Trattato di Maastricht che prevedono un deficit non maggiore del 3% in rapporto al PIL. Vi starete chiedendo: perché, nonostante un deficit atteso del 3,1%, aumentano le tasse, calano i consumi e sale la disoccupazione?
Due sono i motivi:
1) Il deficit non è reale, ma è un surplus camuffato;
2) Se anche non fosse camuffato sarebbe comunque ancora troppo basso per uscire dalla crisi.
Questo grafico ci viene in aiuto per capire di cosa parliamo:
A partire dai primi anni ’90 infatti, guarda caso proprio a ridosso del Trattato di Maastricht, quello che sembra essere un deficit è in realtà un avanzo primario, un surplus. Ad eccezion fatta per il periodo a cavallo tra il 2008 e il 2009, per venti anni i Governi italiani hanno prodotto un surplus di bilancio, incassando più di quanto spendevano, al netto degli interessi. Cosa significa? Che i conti dello Stato, togliendo gli interessi sul debito di cui abbiamo parlato prima, hanno chiuso sempre in avanzo (T > G, ricordate?), hanno sottratto al settore privato più di quanto hanno concesso. Questo surplus, quindi, si trasforma in deficit solo dopo aver pagato gli interessi sui titoli di Stato! Infatti è sufficiente capire che un surplus del 2% sul PIL si trasforma necessariamente in un deficit maggiore del 3% se devi pagare il 5,5% di interessi!
I Governi che si sono succeduti, non solo non hanno speso in deficit, che come abbiamo visto rappresenta un’iniezione di ricchezza per il settore privato, ma hanno fatto l’esatto contrario.
Terzo mito sfatato: la spesa in deficit dello Stato, lungi dall’essere un problema, è in realtà una risorsa per cittadini ed aziende e quando questa diminuisce si contrae inevitabilmente la ricchezza finanziaria del settore privato, quindi i consumi, gli investimenti ed il risparmio.
Facciamo un bel respiro profondo e armiamoci di pazienza per arrivare all’ultima analisi da fare nonchè ultimo mito da sfatare.
Ma l’Italia spende davvero troppo? Siamo un paese di spendaccioni?
La risposta, ancora una volta, ce la fornisce questo grafico preso dal sito http://noi-italia.istat.it/, (dati Istat quindi) che riguarda la spesa (pubblica) per abitante nel contesto dell’Unione Europea:
Senza aggiungere altro, vi riporto direttamente il rapporto finale dello studio effettuato, che potete trovare sul sito sopracitato:
“L’Italia presenta livelli di spesa per abitante, inferiori alle principali economie dell’Unione. Nel 2011, la pubblica amministrazione italiana spende poco meno di 13 mila euro per abitante e si colloca al dodicesimo posto nella graduatoria europea, subito dopo il Regno Unito (13.526 euro per abitante), la Germania (14.362), l’Irlanda (17.044) e la Francia (17.165). Ai vertici della graduatoria si trovano il Lussemburgo con oltre 34 mila euro per abitante, la Danimarca con quasi 25 mila euro e la Svezia con oltre 21 mila euro, seguite dagli altri paesi nordici. Tra le grandi economie dell’Unione, solo la Spagna spende meno dell’Italia, con poco più di 10.400 euro per abitante.”
Sempre sullo stesso sito si trovano gli stessi dati, ma riferiti ad alcuni settori particolari quali ad esempio Istruzione e sanità. Ebbene, il nostro paese si trova al 22° posto per spesa pubblica su Istruzione e formazione e all’undicesimo posto per quanto riguarda la spesa sanitaria pubblica, con valori che risultano essere di molto inferiori rispetto a quella di altri importanti paesi europei.
Perché ho preso questi due esempi in particolare? Perché la spesa pubblica influenza fortemente il benessere di una nazione e il suo tasso di crescita potenziale quando assume la veste di spesa per accrescere capitale umano, necessario tra l’altro ai fini produttivi (diamo per scontato che lavoratori più formati e più in salute possano produrre di più e meglio). Garantire un’istruzione pubblica di ottimo livello e un adeguato livello di salute, non può che essere funzionale alla crescita di un paese.
Come se non bastasse, analizziamo anche la spesa generale per beni e servizi:
La spezzata verde, che rappresenta l’Italia, presenta valori inferiori a quelli della media dei paesi europei.
Cosa rispondere, dunque, a chi ci ripete continuamente che siamo un paese che spende troppo? La spesa pubblica italiana, lungi dall’essere troppo elevata, presenta valori inferiori a quelli dei maggiori paesi europei con particolare riguardo a quei settori fondamentali allo sviluppo, al benessere e al confort di una popolazione. L’Italia spende meno. Meno. Meno. Meno!
Conclusioni
La spesa pubblica è una parte essenziale nel processo di crescita di una nazione e non è mai negativa se utilizzata nei modi corretti. Inoltre, dai deficit dello Stato dipendono variabili come il grado di istruzione e formazione dei cittadini, il livello di salute della popolazione, nonché l’occupazione. Abbiamo visto come l’Italia spenda meno della media dei paesi europei e le conseguenze le stiamo provando sulla nostra pelle. Per parafrasare Warren Mosler possiamo dire che qualunque governo di qualsiasi dimensione, se vuole tornare ad una situazione di prosperità e benessere, ha l’obbligo di mantenere valori di deficit adeguati, in maniera tale che la popolazione abbia abbastanza ricchezza finanziaria da poter spendere per poter comprare tutto ciò che si possa produrre, risollevando in questo modo i consumi e gli investimenti produttivi da parte delle aziende che portano con se occupazione e prosperità a tutti i livelli.
In alto il deficit!