Notiamo con piacere che il Festival di Sanremo sembra aver risvegliato il duo Alesina-Giavazzi, i quali, come ci hanno abituato da tempo, “se la cantano e se la suonano”, sempre in coppia, chissà se quando vanno in bagno si reggono anche la porta a turno. Nel loro editoriale uscito ieri (21 Febbraio 2014) sul Corriere della Sera, dal titolo “Purchè si dica tutta la verità” (già il titolo è tutto dire) fanno il punto sulla “situazione Italia”, indicando al nuovo governo la linea da seguire per le famigerate riforme che, secondo il loro pensiero, salverebbero l’Italia dalla catastrofe. L’analisi parte dall’elencazione dei problemi più ingenti del Bel Paese: “Quali siano i problemi dell’Italia lo sappiamo da tempo: un debito pubblico enorme, una recessione che sembra non finire mai, banche che prestano col contagocce, una disoccupazione soprattutto giovanile elevatissima, una tassazione asfissiante, una burocrazia che impone oneri immensi alle imprese, e infine i costi della politica. La difficoltà non è dunque individuare le cose da fare, ma metterle in fila e poi affrontarle con determinazione.” Sorvolando sulla questione “debito pubblico” che meriterebbe un approfondimento particolare, i due si accorgono (deo gratias!) che da qualche tempo esiste una situazione di “Credit Crunch”, ovvero le banche non elargiscono credito, che la disoccupazione, in particolare quella giovanile, è in continua crescita, così come la tassazione divenuta asfissiante. Infine, in linea con i più grandi pensatori del nostro secolo, da Travaglio a Beppe Grillo, se la prendono con la casta, politica e burocratica, i cui costi sarebbero insostenibili. Quindi, dopo aver sbagliato, negli anni passati, tutte le previsioni di natura macroeconomica riguardanti il nostro paese, i due inseparabili ci deliziano con una serie di proposte. Vediamole nel dettaglio:

1. Ridurre la spesa pubblica e le imposte

Diamo per scontato che i due eccelsi professori sappiano che nell’aprile del 2012 il Parlamento italiano ha definitivamente introdotto, come principio costituzionale nell’ordinamento giuridico italiano, il pareggio di bilancio, che disciplina la contabilità di Stato al fine di far eguagliare, a fine anno, le uscite finanziarie (Spesa pubblica) e le entrate (Tasse).  Seguendo questa linea contabile, per ridurre le entrate, quindi le tasse, risulta inevitabile per lo Stato effettuare meno spesa pubblica. Se spendo 100 devo avere una tassazione pari alla spesa, quindi 100. Per ottenere un minor onere fiscale, è necessario spendere 60 o 70. Vediamo cosa implica tecnicamente questa scelta a livello macroeconomico. E’ ormai pacifico, anche per istituzioni ultra liberiste come il FMI, che una diminuzione della spesa pubblica di importo x seguito da un identico taglio delle imposte, abbia un effetto depressivo sul PIL di un paese, o meglio, un aumento +x della spesa pubblica al quale corrispondere uno stesso incremento +x delle tasse è molto più producente rispetto alla prima ipotesi, poiché esiste un importante strumento di analisi chiamato moltiplicatore keynesiano (dal nome del suo elaboratore) che evidenzia come l’incremento di una o più variabili che compongono la domanda aggregata (Spesa pubblica, investimenti, consumi), anche al pari di entrate dello stesso valore, abbia un effetto espansivo sul reddito di un paese. Tagliando la spesa pubblica dunque, si rischia di reprimere ulteriormente la propensione marginale al consumo, in un periodo storico in cui i consumi sono al livello del dopoguerra. Concludendo, se proprio si debba utilizzare il pareggio di bilancio, strumento a dir poco deleterio per l’economia di una nazione, è sempre meglio aumentare le uscite finanziarie dello Stato anziché diminuirle. Lo sostiene anche uno studio della BCE, pensate un po’. Ma non è tutto, perché il rischio si potrebbe anche correre, purchè si dica tutta la verità, come da titolo dell’editoriale. Andiamo infatti ad analizzare la spesa pubblica in Italia e lo facciamo servendoci di dati Istat, reperibili al seguente indirizzo: http://noi-italia.istat.it Sostiene l’Istat: “La rilevanza del comparto pubblico sul complesso dell’economia dei paesi occidentali può essere misurata in termini di spesa per abitante. Ne emerge un quadro che, in rapporto agli altri paesi europei, ridimensiona fortemente il ruolo delle Amministrazioni pubbliche (Ap) nel nostro Paese.” Come in effetti si può notare dal grafico, l’Italia si colloca nelle posizioni più basse della classifica se consideriamo solamente i pasi dell’eurozona. Quindi spendiamo già MENO di quasi tutti gli altri paesi, eccezion fatta per Spagna, Cipro, Grecia, Slovenia e Portogallo. Tagliando ulteriormente la spesa scenderemmo ulteriormente nella graduatoria al pari di realtà non certo migliori della nostra. Probabilmente Alesina e Giavazzi non hanno dimistichezza con i dati reali. spesaItalia

2. Far ripartire la crescita e vendere aziende e immobili oggi posseduti da Stato, Comuni e Regioni.  

Ecco un altro cavallo di battaglia del credo liberista: le privatizzazioni selvagge. Niente di nuovo sotto al sole. Infatti nel periodo che va dal 1991 al 2001 i governi che si sono succeduti hanno già provveduto a svendere il patrimonio pubblico tra cui moltissime importanti aziende che da anni chiudevano i bilanci in attivo (quindi fonte di reddito per lo Stato). L’ENI per esempio, di cui abbiamo svenduto l’intero patrimonio immobiliare al colosso bancario americano Goldman Sachs, per non parlare dell’IRI, Enimont, le Acciaierie ternane e moltissimi altri apparati produttivi ed energetici controllati dallo Stato. Quali sono stati i risultati di questo smantellamento dell’apparato statale di cui i nostri vanno tanto fieri? Ce lo dice la Corte dei Conti, che, in un rapporto pubblicato nel 2010, dopo aver evidenziato i bassi ricavi da parte dello Stato a fronte di un’alta domanda (in pratica abbiamo svenduto), scrive: “Importanti criticità, che vanno dall’elevato livello dei costi sostenuti e dal loro incerto monitoraggio alla scarsa trasparenza connaturata ad alcune delle procedure utilizzate in una serie di operazioni, dalla scarsa chiarezza del quadro delle ripartizione delle responsabilità fra amministrazione, contractors ed organismi di consulenza al non sempre immediato impiego dei proventi nella riduzione del debito..” Ed ancora: “Per quanto riguarda le utilities, c’è tuttavia da osservare che l’aumento della profittabilità delle imprese regolate è in larga parte dovuto, più che a recuperi di efficienza sul lato dei costi, all’aumento delle tariffe che, infatti, risultano notevolmente più elevate di quelle richieste agli utenti degli altri paesi europei, senza che i dati disponibili forniscano conclusioni univoche sulla effettiva funzionalità di tali aumenti alla promozione delle politiche di investimento delle società privatizzate. Considerazioni analoghe possono valere anche per ciò che attiene agli effetti sul livello sia delle tariffe autostradali, sia degli oneri che il sistema bancario pone a carico della clientela, tutt’oggi sistematicamente e considerevolmente più elevato di quello riscontrato nella maggior parte degli altri paesi europei”. Non solo poca chiarezza nell’impiego dei proventi e nel monitoraggio delle operazioni, ma cosa ancor peggiore, le privatizzazioni hanno danneggiato i consumatori, il popolo italiano.

3. Provvedimenti per allentare la stretta creditizia. È difficile tornare a crescere se non riparte l’offerta di credito all’economia.

Carissimi Alesina & Giavazzi, anche uno studente universitario del primo anno di economia sa benissimo che le banche si comportano in modo pro-ciclico, seguono cioè il ciclo dell’economia. L’erogazione di credito bancario avviene in funzione del merito creditizio ed in una situazione di recessione come quella attuale, la soglia, inevitabilmente si alza insieme ai tassi d’interesse. Chissà se i nostri abbiano mai avuto la possibilità di vedere la faccia di un direttore di banca quando un precario si siede nel suo ufficio per chiedere un mutuo di 200000 euro. In effetti, abbiamo molti dubbi a riguardo.

4. Per portare gli oneri sociali a carico delle imprese al livello tedesco bisogna ridurli di 23 miliardi. 9-10 miliardi si possono reperire tagliando i sussidi alle imprese: 4 miliardi il primo anno, altri 5-6 nei due successivi. 

Dall’inizio della crisi la produzione industriale è crollata di un quarto sotto il picco del 2007-2008, le multinazionali disinvestono dal nostro paese e la disoccupazione in continuo aumento fa calare i consumi. In un quadro macroeconomico di questo tipo la ricetta liberista prevede la completa abolizione dei sussidi statali alle imprese, il cui scopo è quello di rilanciare gli investimenti e che, secondo uno studio condotto dal Ministero dello Sviluppo economico le percentuali di imprese che senza il sussidio o credito d’imposta non avrebbero potuto effettuare certi investimenti vanno dal 63 a più del 75 per cento.

 imprese
Ma andiamo avanti.

5. Un altro miliardo, o due, tagliando i costi della politica

Ecco a voi il vero populismo. Alle centinaia di miliardi di euro che l’Italia dovrà spendere per attenersi ai trattati europei (MES e Fiscal Compact in primis) non si fa riferimento, ma la politica costa troppo. La solita pagliacciata a cui gli italiani si stanno abituando da un paio d’anni.

6. I rimanenti 8 miliardi vanno reperiti dalla spending review .

Ancora tagli alla spesa pubblica? Passiamo oltre.

7. Altre risorse possono arrivare dalla revisione del costo di alcuni servizi (come l’università) che lo Stato offre quasi gratuitamente a tutti, indipendentemente dal reddito.

Io non so in quale mondo vivano questi signori qui, ma da quando mi sono iscritto all’Università statale nel lontano 1996 e per tutto il percorso effettuato, non ricordo di aver mai evitato il pagamento di una retta annuale. L’Università statale gratuita forse esiste in qualche mondo parallelo, lo stesso in cui Oscar Giannino ha conseguito lauree oltremanica.

8. Ridurre le imposte sul lavoro non basta. Bisogna anche riformare i contratti abolendo il muro invalicabile che separa chi ha un lavoro a tempo determinato da chi ne ha uno a tempo indeterminato. La proposta giusta è quella di Pietro Ichino, che riprende un’idea degli economisti Olivier Blanchard (capo-economista del Fondo monetario internazionale) e Jean Tirole. Un contratto uguale per tutti, senza muri e con protezioni che crescono in funzione dell’anzianità sul posto di lavoro. Ad esempio: entro tre anni dall’assunzione un’impresa può licenziare liberamente, dal quarto anno in poi il licenziamento costa all’impresa una indennità (crescente con l’anzianità del contratto) e che finanzia (in parte) i contributi di disoccupazione. Va abolito il principio del reintegro obbligatorio, tranne nei casi di discriminazione. In questo modo verrebbe di fatto cancellato, per i neoassunti, l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.

Ennesimo punto fermo liberista: rendere la precarietà uno stile di vita cancellando completamente l’art. 18 dello Statuto dei lavoratori. Sarebbe giusto, secondo questi due professionisti pagati fior di quattrini per insegnare e scrivere certe idiozie, se le aziende potessero licenziare liberamente i neo assunti, mandando sul lastrico intere famiglie. Pensate che fine farebbero tutte le donne, appena assunte, in attesa di un figlio, tanto per fare un esempio. Questi signori, che evidentemente non spartiscono neanche un caffè con il volgo, non hanno la minima idea di cosa significhi vivere una vita di stenti e di quale importanza sociale rivesta il lavoro. In altri tempi sarebbero esposti alla pubblica gogna..per usare un eufemismo. Non contenti, rincarano la dose: “occorre anche ridurre il peso dei contratti collettivi, e legare maggiormente il salario alla contrattazione a livello aziendale. Il segreto del successo della Germania sta principalmente nell’avere fatto questo”, che tradotto significa far decidere alle aziende il nostro stipendio, proprio come in Germania dove 7,5 milioni di persone sono impiegate nei cosiddetti mini jobs, lavori di 4/5 ore al giorno con stipendi massimi che non superano i 400 euro mensili, senza alcuna assistenza sindacale né contributi pagati. La Germania, oggi, risulta essere la nazione dell’eurozona con la più alta deflazione salariale degli ultimi 10 anni.

9. La Cassa integrazione (Cig) va abolita. Per tutti coloro che perdono il posto – e con le risorse ora destinate alla Cig e ai corsi di formazione gestiti dal sindacato – va introdotto un sussidio di disoccupazione decrescente nel tempo che li costringa a cercare lavoro (con la possibilità, al massimo, di due rifiuti). 

Attenzione, perché qui ci presentano l’apoteosi della truffa: abolire la cassa integrazione, uno strumento che in condizioni di crisi aziendale permette al lavoratore di mantenere un reddito quasi dignitoso, per far spazio ad un sussidio quantitativamente decrescente nel tempo (omettendo qualsiasi riferimento temporale) che costringa il disoccupato ad accettare qualsiasi condizione lavorativa. Cari professori patentati e prezzolati, la verità che auspicate nel vostro editoriale odierno ve la diciamo noi: siete entrati di diritto, e non da oggi, nell’olimpo dei nemici del popolo italiano. Fonte: http://www.corriere.it/editoriali/14_febbraio_21/purche-si-dica-tutta-verita-2fdac98a-9ac2-11e3-8ea8-da6384aa5c66.shtml