Rispondiamo con questo articolo al primo di alcuni quesiti che ci sono stati posti in merito a dubbi sulla applicazione della Mosler Economics Modern Money Theory in Italia.
Alcuni economisti italiani hanno osteggiato la Modern Money Theory con accuse un po’ bislacche. Il successo del summit del febbraio 2012 a Rimini e la nascita di un movimento nazionale Me-Mmt, invece di essere accolto come vivace e legittima forma di reazione alle politiche di austerità rafforzate da Mario Monti, è stata osteggiato da taluni ferocemente, e volgarmente: e a questo punto, a due anni di distanza, non sappiamo se per invidia, frustrazione o ignoranza.
Fatto sta che nell’estate del 2012 l’accusa principale, reiterata come un mantra, è stato il tema delle “partite correnti”. Secondo gli accusatori, la Me-Mmt consolidando la domanda interna attraverso la ricerca della piena e stabile occupazione provocherebbe un eccesso di importazioni rispetto alle esportazioni: ergo, non sarebbe sostenibile in una economia aperta, o, peggio, lo sarebbe solo se garantita da una forza militare, come quella degli Stati Uniti, che consentirebbe di accettare il dollaro nonostante lo squilibrio della bilancia commerciale degli Stati Uniti. Bla, bla, bla...
Se molti attivisti italiani possono aver dubitato sulla Me-Mmt, fa specie che docenti universitari e intellettuali abbiano così spesso ripetuto questa critica, perché la risposta è molto semplice e immediata. Innanzitutto una delle basi della Mmt è il fatto che la valuta sia scambiata liberamente nei mercati internazionali, ovvero non subisca limitazioni o vincoli come avvenuto per l’Italia dal 1979 (Sme e poi euro).
In un mercato dei cambi flessibili uno squilibrio nell’import-export comporta un riallineamento del valore della valuta nazionale, provocando una tensione verso un nuovo equilibrio di pareggio. Un eccesso di importazioni conduce infatti ad una svalutazione della moneta: l’effetto sarà quello di rendere le esportazioni più convenienti per il settore estero, mentre le importazioni diventano meno concorrenziali nel mercato interno.
Ma una seconda caratteristica di un sistema Mmt è che lo Stato agisca come monopolista della moneta. Nel caso in cui le importazioni siano superiori alle esportazioni determinando uno squilibrio persistente e considerato pericoloso per il sistema produttivo (e quindi minare l’obiettivo della piena occupazione), lo Stato può intervenire per ridurre il costo dei beni prodotti nel territorio nazionale diminuendo l’imposizione fiscale sugli stessi: stiamo parlando, ad esempio, del famoso “cuneo fiscale”, la cui cancellazione consentirebbe l’assunzione di centinaia di migliaia di lavoratori; ma anche dell’Irap, delle addizioniali sull’energia, sull’Irpeg, l’Imu, le addizionali sulla raccolta dei rifiuti, i bolli, le registrazioni, e via discorrendo (l’elenco, in Italia, è potenzialmente infinito). Analogamente, sarebbe possibile anche operare con investimenti mirati a favore delle attività produttive soggette alla concorrenza internazionale (infrastrutture fisiche e tecnologiche).
La diminuzione del carico fiscale sul prezzo di produzione interna può avvenire fin quando questo tornerà ad essere inferiore al prezzo di produzione estera (ma anche oltre se necessario, tralasciando in questo contesto preferenze personali e qualità dei prodotti, anche se il Made in Italy resta un brand invidiatissimo e con pochi concorrenti).
Queste politiche, sommate alla flessibilità del cambio, consentono di raggiungere l’obiettivo del pareggio della bilancia commerciale, laddove un governo con moneta sovrana fiat può raggiungere costantemente la Piena Occupazione ed essere costretto all’export solo per quanto necessario al fine di ripagare le importazioni.
Ma per gli “eterodossi”, che si professano keynesiani ogni due per tre, non possiamo che aggiungere una citazione* di Keynes stesso:
«Se le nazioni imparassero a raggiungere la piena occupazione con le loro politiche interne, non ci sarebbero più forze economiche che mettono gli interessi di un paese contro quelli dei vicini (…). Il commercio internazionale cesserebbe di essere quello che è, cioè un espediente disperato per mantenere l’occupazione interna spingendo le vendite all’estero e limitando gli acquisti, che – se funziona – non fa altro che spostare il problema della disoccupazione sul paese vicino che esce in condizioni peggiori dalla lotta» (John Maynard Keynes, Teoria generale dell’occupazione, interesse, moneta, 1936, capitolo 24).
Non va infine sottaciuto come uno squilibrio della bilancia commerciale non implichi necessariamente una insostenibilità del valore della valuta e dell’economia interna di uno Stato: è il caso concreto, ad esempio, dell’Australia, la quale, nonostante da anni registri un disavanzo nelle partite correnti (soltanto di recente leggermente invertito), veda la propria valuta, il dollaro australiano, tra le principali valute di riserva a livello mondiale (è la settima in assoluto, clicca qui). Infatti lo squilibrio commerciale può essere funzionale all’incremento del know how e all’accrescimento patrimoniale dell’economia nazionale e non meramente al consumo voluttuario.
Ultima considerazione: la Me-mmt è uno strumento che rende la politica economica estremamente flessibile e reattiva agli shock. E’ l’arma per affrontare l’economia liquida, l’iperfinanziarizzazione globale. Il tentativo per evitare che dalla società liquida dei consumatori si sia definitivamente precipitati nella società liquida dei debitori (Zygmunt Bauman). Pensare che uno shock determini il crollo dell’intero paradigma della Mmt significa, ancora, ragionare come se si fosse all’interno dei rigidi vincoli eurocratici o, peggio, se la moneta fosse ancora vincolata al valore dell’oro. Ma quella era una società solida.
Un’altra era.
*si ringraziano per la citazione David Lisetti e Daniele Santolamazza