Terza parte della serie dedicata all’analisi storica e politica del mercato del lavoro in Italia (qui trovate la Parte 1 e la Parte 2). Cercheremo di capire come su di esso abbiano influito i vari shock di politica economica occorsi a partire dall’inizio degli anni ottanta: dal divorzio fra Tesoro e Banca d’Italia all’indomani dell’entrata italiana nello Sistema Monetario Europeo (SME), alle politiche fiscali intraprese dai governi che si sono succeduti, fino alla lunga fase di crescente liberalizzazione del mercato del lavoro.
Per riepilogare le puntate precedenti sarà sufficiente un grafico sui cui ho inserito, da una parte, l’andamento dei salari reali in Italia e, dall’altra, quello dell’inflazione (variazione dell’indice dei prezzi al consumo). I dati dimostrano una cosa molto semplice: durante la fase di inflazione in doppia cifra i salari reali dei lavoratori crescevano (aumentando così il loro potere d’acquisto); mentre, quando l’inflazione inizia a calare bruscamente (a partire dalla seconda metà degli ottanta) i salari reali si incamminano invece lungo un percorso di sostanziale appiattimento. A partire dal 1992, la loro crescita, che era stata abbastanza costante nei trent’anni precedenti, si arresta. La linea diventa piatta e nell’ultimo anno, quello del salvatore della patria Mario Monti (come lo presentò qualcuno), scende addirittura verso il basso, facendo tornare i salari reali ai livelli del 1988.
Ma, fu proprio in base all’assunto secondo il quale l’inflazione danneggia i salari dei lavoratori (premessa palesemente sbagliata come i dati suggeriscono) che si pensò di attuare, a partire dall’inizio degli anni ottanta (nel pieno dei due shock petroliferi), “decisioni politiche mai tentate prima di allora”, così le definì a posteriori il ministro del Tesoro di allora, Beniamino Andreatta (fonte). E queste decisioni furono tutt’altro che irrilevanti per il futuro dell’economia italiana e dei lavoratori.
L’inflazione veniva vista allora come una vera e propria piaga da estirpare: Carlo Azeglio Ciampi (governatore della Banca d’Italia dal 1979 al 1993) la definiva come un “male sottile […] che attacca ora con nuova violenza” (Considerazioni finali 1979, p. 828). E si pensava, almeno questa fu l’idea dichiarata dai due protagonisti della storia che stiamo per raccontare, di debellare la malattia (l’inflazione) combattendone le cause.
Lo Stato fu individuato come una di queste: come ricorda Andreatta nel 1991, infatti, “la Banca d’Italia aveva perduto il controllo dell’offerta di moneta” e, per riconquistarlo, doveva essere “liberata dall’obbligo di garantire il finanziamento del Tesoro” (fonte). Un pensiero pienamente condiviso anche dall’allora governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi, che già nel 1980 scriveva: “Il ritorno a una moneta stabile richiede un vero cambiamento di costituzione monetaria, che coinvolge la funzione della banca centrale, le procedure per le decisioni di spesa pubblica e quelle per la distribuzione del reddito. Prima condizione è che il potere della creazione della moneta si eserciti in completa autonomia dai centri in cui si decide la spesa. […] Oggi quella esigenza deve esser soddisfatta soprattutto nei confronti del settore pubblico, liberando la banca centrale da una condizione che permette ai disavanzi di cassa di sollecitare una larghezza di creazione di liquidità non coerente con gli obiettivi di crescita della moneta. Ciò impone il riesame dei modi attraverso i quali, nel nostro ordinamento, l’istituto di emissione finanzia il Tesoro: lo scoperto del conto corrente di tesoreria, la pratica dell’acquisto residuale dei buoni ordinari alle aste, la sottoscrizione di altri titoli emessi dallo Stato. In particolare è urgente che cessi l’assunzione da parte della Banca d’Italia dei Bot non aggiudicati alle aste” (Considerazioni finali 1980, p. 867-868).
Sembra di capire, insomma, che la soluzione venisse ricercata nelle teorie monetariste, sempre più diffuse all’epoca, secondo cui la moneta causa l’inflazione. Le stesse che peraltro si ritrovano ancora oggi sui maggiori manuali universitari. Uno su tutti, il manuale di macroeconomia di Olivier Blanchard, recita espressamente: “Un’elevata inflazione deriva da un’elevata crescita della moneta. Quest’ultima a sua volta è dovuta alla presenza di ampi disavanzi di bilancio e all’incapacità da parte del governo di finanziarsi con prestiti, presso il pubblico o all’estero”. In soldoni, l’idea è questa: dal momento che il prezzo dei beni è determinato dalla quantità di moneta disponibile per il loro acquisto, un aumento della moneta determinerà automaticamente un incremento del prezzo di quei beni. E, prosegue la tesi monetarista, dal momento che la Banca centrale è la sola in grado di controllare l’offerta di moneta, sarà sufficiente renderla indipendente e autonoma nel suo operato dal Tesoro, per poter tenere sotto controllo in un solo colpo sia la quantità di moneta che, come conseguenza, il livello dei prezzi.
Sono esattamente queste le basi teoriche che rendono legittima e plausibile la creazione di un organo dal tutto indipendente e sovraordinato al potere esecutivo, depositario di un quarto potere monetario da esercitare in completa autonomia, al fine di contenerne l’azione del governo e impedirne la creazione di moneta. Il tutto in nome della stabilità dei prezzi e della lotta senza quartiere all’inflazione, innalzate a virtù supreme e benefiche per l’intera collettività. Aderire a questo tipo d’impostazione significa però accettare inevitabilmente che il governo sia costretto a chiedere in prestito ai mercati i soldi per finanziare la propria spesa (come avviene oggi nell’Eurozona).
Inoltre, dietro ad un’apparente motivazione di carattere tecnico, si nasconde in realtà un orientamento ideologico ben preciso che si fonda su alcuni preconcetti di fondo: il primo è che l’inflazione sia il male assoluto; il secondo è che l’esercizio del potere monetario lasciato nelle mani di uomini politici, anche se democraticamente eletti, sia destinato ad un esercizio distorto, inefficiente e corrotto; terzo, si ritiene che dei tecnici possano gestire la creazione di moneta in maniera migliore, illuminata e più efficace. Questi tre assunti, della cui legittimità non solo democratica ma anche tecnica ci sarebbe da discutere (e lo faremo più avanti), costituiscono il fondamento filosofico della creazione di una Banca centrale “indipendente” dall’esecutivo.
Come dice Mario Monti (uno dei maggiori sostenitori di questo approccio): “il rapporto fra democrazia e Banca centrale è come un ‘deposito’ che la politica fa in un luogo di lunga durata, a cui affida in custodia i valori che ritiene importanti. La stessa politica sa che questi valori saranno meglio tutelati, se affidati a qualcuno che può permetterselo, trovandosi al riparo dal processo elettorale” (Fonte). Vedete, in queste poche righe traspare tutta la filosofia paternalistica (“la politica sa che questi valori saranno meglio tutelati”) e antidemocratica (“al riparo dal processo elettorale”) della Banca centrale indipendente.
Quindi, riepilogando: all’inizio degli anni ottanta, c’era la motivazione politica dichiarata (sia del ministro del Tesoro che del Governatore), il contesto storico favorevole (il doppio shock petrolifero, l’alta inflazione e l’ingresso nello Sme, di cui parleremo) e una teoria economica ad hoc (patrocinata dal premio nobel Milton Freidman) a pieno supporto di “decisioni politiche mai tentate prima di allora”, come le chiamò Andreatta.
Fu così che, come ricorda lo stesso Andreatta, “con l’asta dei Bot del luglio 1981 iniziava, dieci anni fa, un nuovo regime di politica monetaria. Si inaugurava, infatti, il cosiddetto ‘divorzio’ fra Tesoro e Banca d’ Italia: una ‘separazione dei beni’ che esimeva la seconda dal garantire in asta il collocamento integrale dei titoli offerti dal primo”. Si creava di fatto una “‘separatezza’ fra i poteri esecutivo, legislativo e monetario”, con il potere monetario che avrebbe però regnato in completa indipendenza e senza contrappesi rispetto agli altri poteri, condizionandone e indirizzandone in modo sempre più determinante l’esercizio. E non finisce qui, perché il nostro reo confesso parla di una vera e propria “congiura tra il ministro e il governatore”, che non passò per i classici canali della dialettica democratica, ma fu esclusivamente frutto di una sua personale decisione. Tale scelta, infatti, non aveva alcun consenso politico, venne presa “in una compagine ministeriale in cui non avevo alleati, ma colleghi ossessionati dall’ideologia della crescita a ogni costo, sostenuta da bassi tassi di interesse reali e da un cambio debole”, ma i “consulenti legali mi diedero un parere favorevole sulla mia esclusiva competenza, come ministro del Tesoro, di ridefinire i termini delle disposizioni date alla Banca d’Italia circa le modalità dei suoi interventi sul mercato e il 12 febbraio 1981 scrissi la lettera che avrebbe portato nel luglio dello stesso anno al ‘divorzio’. Il termine intendeva sottolineare una discontinuità, un mutamento appunto di regime della politica economica”. E, forse proprio in virtù della sua matrice antidemocratica, tale atto, come ricorda bene il protagonista di questa storia, “non ebbe allora il consenso politico, né lo avrebbe avuto negli anni seguenti”, ma, “prima che la coalizione degli interessi contrari potesse organizzarsi”, esso sarebbe diventato “un fatto della vita che sarebbe stato troppo costoso – soprattutto sul mercato dei cambi – abolire per ritornare alle più confortevoli abitudini del passato” (fonte).
Inizia una nuova era. L’Italia cede, infatti, la propria sovranità monetaria a un’entità esterna: “da quel momento in avanti – ricorda sempre Andreatta – la vita dei ministri del Tesoro si era fatta più difficile e a ogni asta il loro operato era sottoposto al giudizio del mercato”. D’ora in poi, quindi, sarebbero stati i mercati, depositari del potere monetario, a dettare l’agenda economica al governo e al parlamento di Roma. Inutile dire che ciò che sta avvenendo oggi, con governi e parlamenti sempre più alla mercé dei mercati (“sottoposti al giudizio del mercato” per dirla con l’ex ministro), affonda le sue radici in questo preciso momento storico. Da quel momento, infatti, ciò che prima apparteneva allo Stato, fu ceduto nelle mani del mercato.
E, come ammette lo stesso Andreatta, non si trattò di una cessione avvenuta in modo democratico. Tutt’altro: non ci fu alcun decreto del governo, nessun voto parlamentare. Il tutto fu consumato in uno scambio epistolare fra il Ministro e il Governatore. Il 12 febbraio 1981, Beniamino Andreatta, scriveva su carta intestata del Ministero del Tesoro che c’era “un’insufficiente autonomia nella condotta della Banca d’Italia nei confronti delle esigenze di finanziamento del tesoro. In particolare l’esistenza di un obbligo di acquisto residuale in sede d’asta dei Bot […] e la norma sul massimo scoperto del conto corrente di tesoreria provinciale, comportano un insieme di vincoli sulla libertà di gestione dell’offerta di moneta”. L’idea era di arrivare a ”un sistema in cui l’intervento della Banca d’Italia all’asta dei Bot” fosse “una libera decisione della Banca stessa”. Il destinatario della lettera era Carlo Azeglio Ciampi, allora Governatore della Banca d’Italia, il quale rispose prontamente il 6 marzo, dicendosi “sostanzialmente d’accordo” e ribadendo che per superare “i vincoli imposti dalla dimensione e dall’andamento nel tempo del disavanzo statale” fosse “necessario che il finanziamento al Tesoro della Banca d’Italia” venisse “da questa regolato in piena autonomia al fine di raggiungere gli obiettivi di controllo monetario. […] Occorrerebbe dunque che il Tesoro – continuava – finanziasse l’intero ammontare delle spese non coperte da entrate fiscali mediante emissione di titoli in pubblica sottoscrizione […] L’interruzione dell’automatismo degli acquisti della banca centrale alle aste dei Bot è un primo passo, di notevole importanza, per la realizzazione di un obiettivo di crescita della base monetaria complessiva, indipendente dal disavanzo”.
Il divorzio fu così siglato.
Un risultato fu certamente ottenuto: il “male” fu effettivamente estirpato. Dalla seconda metà degli anni ottanta, infatti, il tasso d’inflazione annuo si incamminò su un sentiero stabile di bassa crescita in singola cifra. Giova ricordare che, casualmente proprio quando l’inflazione cominciò a rallentare nella seconda metà degli anni ottanta, anche il prezzo del petrolio scese in maniera consistente, riportandosi sui valori analoghi a quelli della seconda metà degli anni settanta (nel 1986 il suo prezzo medio si dimezzò rispetto all’anno precedente).
I presunti benefici profilati da Ciampi, secondo il quale “in altri paesi, dagli equilibri economici più saldi del nostro, sono stati stretti accordi che prevedono tagli del salario reale. In alcuni casi, come nella Germania federale, i sindacati li hanno accettati nella convinzione che la minore inflazione che ne conseguirà consentirà sicurezza del posto di lavoro e, a non lunga scadenza, ricuperi durevoli di potere d’acquisto” (Considerazioni finali 1981, p.878-879), non si manifestarono.
Come mostra il grafico in alto la discesa dell’inflazione portò, contrariamente alle dell’ex Governatore, a una perdita del potere d’acquisto dei lavoratori. Come ricorda il solito Andreatta, c’era un altro problema da affrontare con urgenza alla vigilia del divorzio: “il demenziale rafforzamento della scala mobile, prodotto dell’accordo tra Confindustria e sindacati confederali proprio nei primi mesi del 1975, aveva talmente irrigidito la struttura dei prezzi, che, in presenza di un raddoppio del prezzo dell’energia, anche una forte stretta da sola era impotente a impedire che un nuovo equilibrio potesse essere raggiunto senza un’ inflazione tale da riallineare prezzi e salari ai costi dell’energia” (fonte).
La scala mobile era uno strumento economico grazie al quale i salari dei lavoratori venivano indicizzati automaticamente all’inflazione e all’aumento del costo della vita. Se il livello medio dei prezzi cresceva, anche i salari aumentavano proporzionalmente ad esso. In questo modo si evitava che i salari reali (ossia i salari depurati dall’inflazione) ristagnassero o diventassero negativi. Ma il problema, utilizzando il solito pretesto tecnico fornito ad arte dalle teorie monetariste, era che se i salari aumentavano troppo allora cresceva anche la quantità di moneta e con essa, come conseguenza, saliva l’inflazione.
La storia che venne raccontata ai lavoratori fu il solito cliché di paternalismo edulcorato: “Vedi, caro operaio: devi sapere che l’inflazione è la tua nemica, perché erode il valore del tuo salario. Quindi, se noi ci diamo tanto da fare per combatterla, la facciamo anche per il tuo bene”. E, infatti, proprio negli anni successivi al divorzio, tale strumento verrà prima ridimensionato dal governo Craxi (1984) e in seguito abolito del tutto dal governo Amato (1992).
Ma non solo: anche il livello dell’occupazione non migliorò affatto (altro dato che smentisce Ciampi). Al contrario, come mostra il grafico in basso, dal 1960 al 1976 il tasso di disoccupazione non superò mai il 6 per cento; aumentò leggermente nei cinque anni successivi, toccando il 7,4 per cento nel 1981. Ma, nel corso degli anni ottanta salì ulteriormente, arrivando in doppia cifra verso la metà degli anni novanta.
Direi che per adesso può bastare, nella prossima parte vedremo le altre conseguenze del divorzio e soprattutto come funzionava prima del divorzio fra Tesoro e Banca d’Italia.
FONTE: http://memmttoscana.wordpress.com/2013/09/01/il-divorzio-fra-tesoro-e-banca-ditalia-e-la-lotta-allinflazione-parte-3/