Secondo post dedicato all’analisi storica e politica del mercato del lavoro in Italia (qui la Parte 1). Cercheremo di capire come su di esso abbiano influito i vari shock di politica economica occorsi a partire dall’inizio degli anni ottanta: dal divorzio fra Tesoro e Banca d’Italia all’indomani dell’entrata italiana nello Sistema Monetario Europeo (SME), alle politiche fiscali intraprese dai governi che si sono succeduti, fino alla lunga fase di crescente liberalizzazione del mercato del lavoro.
Riassunto della puntata precedente
La parte nuova inizia sotto, dopo la lista numerata di riepilogo per chi avesse già letto la prima parte.
Dunque, abbiamo visto che:
1) Il mercato del lavoro è un costrutto sociale, che, in quanto tale, incorpora delle relazioni di potere. Queste relazioni di potere, ovviamente, non sono date e immutabili, bensì esprimono e riflettono il risultato di una “lotta” fra attori economici portatori di interessi diversi. Per dirla con Marx, da una parte abbiamo coloro che vendono la propria forza lavoro (i lavoratori); dall’altra, coloro che acquistano questa forza lavoro (che possiamo chiamare in via generale capitalisti).
2) Il modello mainstream (di stampo neo-classico), pur sottolineando e analizzando il peso della presenza di sindacati e di imprese dotate di gradi diversi di potere di mercato nel processo di contrattazione salariale, conclude che, in realtà, il conflitto salariale è dannoso per i lavoratori stessi. Dal momento che maggiori rivendicazioni salariali innescano una spirale al rialzo fra salari e prezzi imposti dalle imprese che determina in ultima battuta un aumento della disoccupazione. Dunque è nell’interesse dei lavoratori contenere le proprie rivendicazioni.
3) Questo tipo di visione appare da un punto di vista teorico assai scricchiolante soprattutto perché tende a risolvere lo scontro che avviene  sul mercato del lavoro in un adeguamento che viene imposto da parte delle imprese ai lavoratori in modo quasi unilaterale, quando invece è molto più presumibile che un conflitto di questo tipo spesso tenda a stabilizzarsi in una situazione intermedia, in cui le imprese magari riducono in parte il loro margine di profitto e i lavoratori aumentano la propria quota salari proporzionale. Detto altrimenti, il risultato finale di questa “lotta” lavoratore-capitalista dipende molto più verosimilmente dal contesto politico-istituzionale in cui avviene lo scontro. Un contesto in cui le leggi proteggono molto i lavoratori e nel quale i sindacati sono molto agguerriti e inflessibili potrebbe costringere le imprese a cedere il passo.
4) Poi, abbiamo visto che quando si parla di salari dei lavoratori dobbiamo tenere a mente una distinzione fondamentale: quella fra salario nominale (o monetario) e salario reale. Il salario monetario è quello che viene a determinarsi sul mercato del lavoro e corrisponde all’ammontare di denaro che un lavoratore riceve dal proprio datore di lavoro nel corso di un certo arco di tempo (noi utilizzeremo come arco temporale un anno). Solitamente il salario nominale percepito dal lavoratore è il risultato di accordi sindacali fra imprese e lavoratori.
Mentre il salario nominale rappresenta semplicemente la quantità di denaro ricevuta per il proprio lavoro, il salario reale è definito in relazione alla quantità di beni e servizi che si possono acquistare in un determinato periodo con quel determinato salario monetario.
Se per esempio nel corso di un anno il salario nominale di un lavoratore cresce di 10 e il livello generale dei prezzi al consumo cresce di 9, allora il suo salario reale risulterà cresciuto di 1, dal momento che all’incremento monetario corrisponderà la possibilità di acquistare maggiori beni e servizi rispetto a prima.
5) Infine abbiamo calcolato l’andamento dei salari reali italiani (ho spiegato nella prima parte come li ho calcolati), osservando che essi sono sostanzialmente fermi da un ventennio:

SECONDA PARTE
Salario reale e inflazione
Ci viene continuamente ripetuto che l’inflazione è il peggiore di tutti i mali, la più iniqua delle tasse, il fenomeno monetario che danneggia il lavoratore più di ogni altra cosa. L’argomentazione più utilizzata è questa: se un lavoratore guadagna per esempio 10 e l’inflazione (la misura della variazione dell’Indice dei prezzi al consumo) aumenta di 10 allora il suo salario reale e il suo potere d’acquisto restano immutati; se l’inflazione aumenta di 15 peggio ancora, il suo salario reale risulterà diminuito di 5. Dunque, questa è la logica conseguenza, bisogna a tutti i costi fermare questo male che si chiama inflazione e concentrare tutte le energie per il contenimento e la stabilità dei prezzi, che sono la sola cosa in grado di tutelare i lavoratori e i loro salari.
Indubbiamente, si tratta di un tipo di argomentazione che ha avuto e tutt’oggi ha un notevole appeal e che probabilmente persuade anche molti di voi che stanno leggendo queste righe: se il livello dei prezzi sale troppo allora il tuo salario e i tuoi soldi varranno meno, ergo dobbiamo evitare per il bene di tutti che i prezzi salgano troppo.
L’inflazione in Italia
Quindi, se quanto detto in precedenza risulta vero, dovremmo aspettarci che nel momento in cui i prezzi salgono molto e soprattutto quando lo fanno in modo improvviso e repentino i salari verranno “sopravanzati” dall’inflazione: il livello dei prezzi sale a livelli tali da superare qualsiasi aumento salariale, facendo così diminuire il potere d’acquisto dei lavoratori.
Questo dovrebbe raccontare la realtà per rendere ameno verosimile l’ipotesi iniziale. In economia, così come in generale nella vita, capirete che ogni ipotesi per essere quantomeno fondata ha bisogno di un riscontro empirico, deve effettivamente funzionare alla prova dei fatti. Se dati e teoria non stanno insieme quasi sicuramente significa che c’è qualcosa che non va dalla parte teorica, dal momento che i dati (senza pretesa di divinizzarli) sono numeri e su quelli poi bisogna ragionare. Detto altrimenti: una buona teoria economica, che ha la pretesa di spiegare il funzionamento della realtà, deve in qualche modo rispondere, essere uniforme alla realtà stessa. Se si costruiscono modelli teorici che si basano su un mondo che non esiste è ridicolo poi lamentarsi per il fatto che il mondo reale non sia quello che noi pretendevamo fosse, o peggio ancora accusare il mondo di non uniformarsi al modello teorico costruito.
Vediamo quindi come si è evoluta l’inflazione in Italia (grafico in basso) negli ultimi cinquant’anni:

Come potete ben vedere ci sono stati due grandi picchi d’inflazione nella storia della nostra Repubblica. Il primo nel 1974, l’anno del primo shock petrolifero iniziato nell’ottobre 1973, nel corso del quale il prezzo del petrolio aumentò di circa 4 volte e l’inflazione toccò il 19,4%. Il secondo picco fu invece quello del 1980, quando una nuova ascesa del prezzo del petrolio colpì le economie occidentali: stavolta l’inflazione segnò un picco del 21,28%. Il 1974, inoltre, segna l’avvio degli anni dell’inflazione a due cifre (che tanto spaventava e ancora spaventa tutti quanti), che andarono dal 1973 (10,74%) al 1985 (10,85%). Non va dimenticato però che si trattò di una serie di eventi di natura esterna tanto imponenti quanto inaspettati. In basso potete vedere l’andamento del prezzo del petrolio (in dollari) dal 1961 al 1990 per farvi un’idea della portata del fenomeno:

Si vede bene che nel 1974 il prezzo del petrolio quasi quadruplicò a prezzi correnti e più che triplicò a prezzi costanti, attestandosi su quei valori fino al 1978. L’anno seguente (1979) i prezzi salirono ancora, raddoppiando sia in termini correnti che costanti. E bisognerà aspettare il 1986 per vedere tornare i prezzi a livelli inferiori rispetto al 1974. Inoltre, a riprova del fatto che si trattò di un evento di portata più mondiale che nazionale, basta osservare l’andamento del tasso d’inflazione delle altre nazioni occidentali in quegli stessi anni.

Come potete notare l’Italia era in buona compagnia e c’era anche chi faceva “peggio” di noi: Giappone e Regno Unito per esempio ebbero picchi d’inflazione addirittura superiori al nostro nel corso degli anni settanta e un aumento del livello dei prezzi interni si manifestò anche in Francia e Stati Uniti e in misura minore persino nell’allora Germania dell’Ovest. Il secondo shock degli anni ottanta colpì nuovamente tutti quanti, sia pure in maniera diversa. In ogni caso, l’inflazione in doppia cifra fu registrata nel 1980 non solo in Italia, ma anche nel Regno Unito, in Francia e negli Stati Uniti. E, così come l’inflazione si muoveva verso l’alto in modo piuttosto analogo da paese a paese, lo stesso avvenne in senso contrario, quando a partire dalla seconda metà degli anni ottanta il prezzo del petrolio e i tassi d’inflazione cominciarono a scendere in modo omogeneo praticamente ovunque.
Salari e inflazione
Dell’inflazione abbiamo parlato. A questo punto, ci resta da vedere se davvero essa è nemica dei lavoratori perché un suo aumento eccessivo e improvviso (stile anni settanta-ottanta) diminuisce il valore del loro salario nominale/monetario e quindi fa calare il loro salario reale (che ricordiamo equivale a: salario nominale meno tasso d’inflazione). Per farlo ci servono quindi due variabili:
1) L’andamento dei salari nominali. Per calcolarlo prendiamo il salario nominale unitario (cioè il salario medio di un lavoratore dipendente), che già avevamo visto nella prima parte, e poi calcoliamo il suo andamento temporale. Vediamo cioè di quanto il salario nominale aumenta o diminuisce da un anno all’altro (qui tutti i calcoli). Ricordo che i dati vengono dal solito database della Commissione Europea Ameco.
2) Il tasso d’inflazione, ossia la variazione anno su anno dell’Indice dei prezzi al consumo. Si tratta della linea rossa che abbiamo visto prima, che non fa altro che riflettere la variazione annuale del livello generale dei prezzi al consumo. Per questo dato ho utilizzato il database del Fondo Monetario Internazionale, International Financial Statistics.
Prima di vedere questi due dati ricordiamo che se la linea dei salari sta al di sopra di quella dell’inflazione allora significa che i salari reali stanno crescendo. Viceversa se la linea rossa sovrasta quella blu dei salari significa che i lavoratori vedono diminuire il loro salario reale.
Ed ecco finalmente i dati:

Beh alla faccia dell’imposta più iniqua. Per tutti gli anni sessanta e settanta, nonostante l’inflazione a due cifre e gli shock petroliferi di cui sopra, i salari dei lavoratori crescevano regolarmente e  superavano ampiamente l’incremento dei prezzi. Come si può ben vedere dal grafico in basso, i lavoratori vedevano aumentare anno dopo anno il loro salario reale e con questo il loro potere d’acquisto e il loro benessere generale.

Poi, negli anni ottanta succede qualcosa, lo vedete bene. La linea blu e quella rossa quasi si sovrappongono e poi, sostanzialmente a partire dalla fine della prima metà anni novanta, la linea blu finisce spesso al di sotto di quella rossa, anche se l’inflazione tocca i suoi minimi storici. Significa che il salario reale dei lavoratori diminuisce e così avviene anche per il loro potere d’acquisto.
Ecco quindi che a chi racconta la storia dell’inflazione brutta, cattiva, iniqua e nemica dell’operaio bisognerebbe quantomeno rispondere così: “Aspetta un attimo amico. Un momento. Nemica sì, ma solo se i salari non crescono o meglio se crescono in misura minore, se crescono di più rispetto a quanto cresce il livello dei prezzi allora il potere d’acquisto aumenta e non il contrario.“
Direi che per la seconda parte è abbastanza. A presto per la prossima parte, per parlare di cosa è accaduto proprio a partire dall’inizio degli anni ottanta, quelli della lotta all’inflazione.