L’Argentina ci fornisce un esempio significativo[i]. Nel 1991 adottò un comitato valutario basato sul dollaro e da quel momento cedette la propria sovranità monetaria diventando un fruitore di moneta, anziché un’emittente[ii], proprio come hanno fatto gli Eurostati adottando l’euro. Per un certo verso, l’esperimento argentino col comitato valutario può essere letto come uno sforzo supremo per contenere l’instabilità. Non ci sono dubbi sul fatto che l’Argentina abbia sofferto per molto tempo di cattiva amministrazione economica. Prima di dollarizzarsi (tecnicamente adottò un accordo di comitato valutario, ma non vi è molta differenza) aveva sofferto un’inflazione alta, elevati tassi d’interesse, crescita lenta, disoccupazione alle stelle e deficit di bilancio cronici[iii]. Non c’è bisogno di trovare argomenti in opposizione al fatto che l’adozione del dollaro fornì la giustificazione politica e la volontà di implementare l’austerità fiscale, né di negare che tale austerità contribuì a far calare l’inflazione e neppure che la valuta stabile legata al dollaro eliminò il rischio di cambio. Infatti, la creazione del comitato valutario, così come le numerose riforme strutturali che includevano la privatizzazione rapida di beni statali e il ridimensionamento del governo nazionale, sembrarono portare vantaggi significativi. Tra il 1984 e il 1993 la crescita reale al netto dell’inflazione superò appena il 2% annuo; durante il resto degli anni ’90 si avvicinò al 5%. Il boom clintoniano e il crescente deficit della bilancia commerciale americana contribuirono ad alimentare la crescita argentina incrementandone le esportazioni. L’apertura dell’economia e la liberalizzazione del commercio fecero sì che le esportazioni, così come le importazioni, in rapporto al Pil, crebbero ben al di sopra del 7% nella prima meta degli anni ’90. Le spese federali crollarono da una percentuale di più del 27% del Pil alla fine degli anni ’80 a circa un 20% nel corso degli anni ’90; il bilancio federale raggiunse il pareggio nella prima metà degli anni ’90 (e perfino un surplus nel 1994). L’inflazione passò da un quasi 100% dell’inizio degli anni ’90 a un quasi zero per il resto del decennio (fino al collasso del comitato valutario). Non c’è da meravigliarsi se coloro che promossero il Washington Consensus videro l’esperimento argentino come un pressoché completo successo[iv].
Questo programma di austerità rese l’economia poco incline alla crescita, cosa che poteva essere risolta soltanto da massicci investimenti privati, fossero essi consumi o investimenti interni o un surplus nella bilancia commerciale. La dollarizzazione rendeva meno competitive le esportazioni argentine ogni qualvolta le nazioni concorrenti svalutavano la propria moneta, inoltre il dollaro aveva la tendenza a crescere durante il decennio. Questo apprezzamento fece sì che le importazioni superassero le esportazioni causando, dopo il 1992, un deficit persistente della bilancia commerciale (il deficit arrivò fino al 3% del Pil con picchi ricorrenti). Inoltre, con l’accumularsi di spinte deflazionistiche e con il rallentamento della crescita economica (tutti gli anni, dal 1990 in avanti, con una crescita negativa del Pil al netto dell’inflazione) crollarono i ricavi dalle imposte e il governo fu costretto a indebitarsi o a tagliare la spesa.
Nel tentativo di frenare la crescita dei propri disavanzi, il governo federale tagliò i pagamenti alle amministrazioni regionali con la conseguenza di logorarne le finanze, di aumentare la disoccupazione, di frenare i consumi e gli investimenti privati e infine di portare le amministrazioni locali sull’orlo del default. Le amministrazioni regionali sperimentarono dei metodi di finanziamento piuttosto singolari: per poter pagare le proprie spese emisero cambiali a brevissima scadenza, le stesse che successivamente accettarono come pagamento delle imposte regionali (i Patacones ne erano un esempio). Ben presto vennero accettate in tutto il paese per qualunque tipo di acquisto (fosse la bolletta della luce o i BigMac del McDonald’s!), e perfino accettate dal governo nazionale per il pagamento delle tasse. Tuttavia, per le amministrazioni regionali il default era stato soltanto rimandato, dato che le cambiali, giunte a scadenza, avrebbero dovuto essere rimborsate in pesos, aumentando così il debito a livello locale. Per quanto riguarda il governo centrale invece, la corsa verso il default venne accelerata poiché le cambiali soffocarono le entrate in pesos e in dollari.
Inoltre, dato che i tassi di interesse non si abbassarono di quanto ci si aspettava (infatti, dopo la creazione del comitato valutario, i tassi d’interesse argentini rimasero in linea con quelli degli Stati vicini a testimonianza del fatto che le stime del mercato sul rischio di default avevano compensato quasi completamente la riduzione del rischio di cambio), le spese di copertura del debito pubblico crebbero piuttosto rapidamente (nell’anno 2000, i costi degli interessi ammontavano a circa il 17% della spesa pubblica). La combinazione fra crescita lenta e alti tassi per l’indebitamento pubblico generò un circolo vizioso che indusse l’erario a un aumento dell’austerità fiscale, la quale ostacolò la crescita, fece aumentare la disoccupazione e, vista la penuria di reddito tassabile, fece ulteriormente salire la pressione fiscale. In questo modo, il default del governo centrale era assicurato, così come era assicurata l’estrema agitazione sociale, che è naturale quando la disoccupazione raggiunge il 20%.
Infine, se la dollarizzazione inizialmente portò dei vantaggi, mise l’Argentina in una situazione insostenibile e qualsiasi vantaggio era certamente destinato a durare poco. La bomba esplose a Natale 2001, quando l’Argentina si dichiarò insolvente rispetto al suo debito in dollari, abbandonò il comitato valutario, smise di convertire i pesos in dollari e lasciò fluttuare la valuta. Poco più di un anno dopo, l’Argentina sembra essere sulla via della guarigione; continua a ignorare le lettere e le telefonate dei creditori e, fino a che continuerà a farlo, potrà sperare in una lenta ripresa, a condizione che mantenga un tasso di cambio fluttuante e che non assuma una posizione fiscale eccessivamente rigida. Per la precisione quanto veloce sarà questa ripresa dipende in larga misura dal fatto che i suoi politici riconoscano che stanno lavorando all’interno di un nuovo paradigma: la sovranità monetaria.
Articolo tratto dal paper “Is Euroland the next Argentina?” di Randall Wray.
Traduzione a cura di Riccardo Ferrari