Un debito sovrano eccessivo compromette davvero la crescita? (pdf)

INTRODUZIONE
Non vi sono probabilmente argomenti più scottanti di quello circa l’impatto dei deficit di  bilancio governativi, e del debito, sulla crescita di lungo periodo. La peggiore crisi dai tempi della Grande Depressione ha provocato un rigonfiamento dei deficit di bilancio nella maggioranza dei Paesi, poiché sono crollate le entrate fiscali, i governi hanno salvato le istituzioni finanziarie e sperimentato politiche fiscali contro-cicliche. Ad esclusione di ragguardevoli eccezioni, la maggior parte degli economisti accoglie l’opportunità dell’espansione dei disavanzi di bilancio nel breve periodo, ma teme eventuali effetti a lungo termine. Il quesito viene posto in modo da poter essere collegato ai problemi strutturali relativi ai disavanzi della maggioranza delle economie avanzate, che sorgono da una combinazione di programmi troppo “beneficenti” e dall’invecchiamento della popolazione, dal momento che gran parte della rete di sicurezza sociale è rivolta a persone anziane. Dunque, persino coloro che sostengono una maggiore leva fiscale ora asseriscono che stringere la cinghia sarà necessario una volta che la ripresa avrà inizio. Molti ritengono che i benefici promessi dovranno essere ridimensionati per dare così luogo a dei bilanci “sostenibili”. Tuttavia qual è la relazione fra il debito e la crescita di lungo periodo? E poi, c’è un limite alla quantità che può raggiungere il debito pubblico prima che il governo debba fare default? Vi è una serie di argomentazioni teoriche che inducono alla conclusione che tassi di debito governativo più elevati potrebbero deprimere la crescita, come conseguenza degli effetti del crowding out1 sugli investimenti (o per l’equivalenza ricardiana)2 e dell’uso alquanto inefficiente delle risorse da parte del governo. Vi sono altre argomentazioni teoriche, inerenti ai più immediati effetti del debito, che poggiano sul computo della sostenibilità fiscale ― relazioni fra tassi di crescita e pagamento degli interessi del governo ― e che implicano che il governo sarà costretto a fare default o ad imporre una catastrofica “tassa da inflazione” che rallenterebbe la crescita. Tuttavia, nessuna di queste è convincente perché, come è usuale in economia, la teoria raramente fornisce una risposta definitiva (eccetto quando declamata da economisti univoci e determinati).3 In soccorso, intervengono Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff con la loro ricerca monumentale (arricchita ulteriormente da un recente saggio) che fornisce evidenze empiriche delle relazioni fra debito, crisi finanziarie, inflazione, crolli delle borse e dei mercati monetari, default di governi sovrani, e crescita di lungo periodo (Reinhart e Rogoff 2009a e 2009b). Essi hanno sviluppato una nuova banca dati che ricopre ben otto secoli e sessantasei Paesi, sebbene il libro si concentri maggiormente su crisi e default dal 1800 in poi. Essi identificano 250 default sovrani esterni e 70 default sul debito pubblico interno, venendo alla conclusione che la cosiddetta “insolvenza seriale”4 sarebbe stata la regola attraverso la storia ed intorno al globo ― senza pressoché nessun “insolvente vergine”5 (2009a). Questi default, stando alla loro analisi dei dati, comporterebbero ampi costi in termini di crescita debole e bassa per tanti anni.
Dalla loro analisi storica, essi hanno dedotto con una certa accuratezza un limite prudenziale per il rapporto debito sovrano/PIL. Essi hanno rinvenuto che, fino ad un tasso del 90%, la relazione fra il debito governativo e la crescita economica è scarsa, ma al di sopra di questo limite la crescita comincerebbe a risentirne, con una caduta della crescita mediana6 di lungo periodo di un punto percentuale ed una caduta della crescita media in generale ancora superiore. Questi risultati varrebbero sia per le nazioni sviluppate che per le economie emergenti. Tuttavia, per le nazioni emergenti ― che tipicamente prendono a prestito maggiormente dall’estero ― la soglia del debito governativo esterno è più bassa, con una caduta della crescita di due punti percentuali quando quel rapporto (fra il debito pubblico detenuto dal settore estero ed il PIL nazionale) raggiunge il 60%. La crescita diviene negativa a rapporti al di sopra del 90% (2009b). Ovviamente, se questi risultati sono rilevanti, anche le  conseguenze per le nazioni in via di sviluppo ― in particolare ― sono importanti. Inoltre, Reinhart e Rogoff (2009b) non trovano una relazione fra alti tassi di debito governativo ed inflazione entro i Paesi sviluppati (eccetto per il caso degli Stati Uniti), ma le nazioni emergenti risentono negativamente dell’innalzamento dell’inflazione mediana dal 6% annuo al 16.5% quando esse si spostano da un basso tasso di debito ad un tasso alto. Ancora peggio, essi trovano che raramente i Paesi crescono da soli a causa di alti livelli di debito. Piuttosto, le nazioni altamente indebitate architetterebbero il default attraverso combinazioni di rapida inflazione o d’integrale ripudio del debito (2009a). Per di più, la via del recupero dopo il default non è gradevole, con anni di PIL indebolito, alta disoccupazione e accesso ai mercati dei capitali mondiali attenuato.
Dalla Seconda Guerra Mondiale in poi, è sembrato che le nazioni avanzate avessero “superato” l’insolvenza seriale, ma non necessariamente le crisi finanziarie (invero, un elenco articolato delle crisi mostra effettivamente che la frequenza delle crisi è incrementata negli ultimi anni ― e la crisi corrente ne è l’esempio più lampante) (Reinhart e Rogoff 2009a). Le nazioni “promosse” alimentano un circolo virtuoso, poiché la lontananza dal default migliora la fiducia e le valutazioni sul rating, riducendo gli interessi e quindi l’espansione delle spese per debiti. Quando una nazione perde la fiducia dei suoi creditori, l’ “intolleranza al debito” può rapidamente generare un circolo vizioso di incremento degli interessi e degli indici di deficit, che conducono alla perdita di fiducia sui mercati dei capitali e l’avvicinarsi dello spettro del default. Essi enfatizzano il fatto che un deficit di bilancio, e pertanto anche l’aumento del debito, sia almeno parzialmente endogeno. Non sono solamente i tassi d’interesse a svolgere un compito di segnale per i creditori ― facendo sì che il pagamento degli interessi sia endogeno ― ma anche le crisi hanno un impatto sostanziale sui bilanci. Mentre molti puntano ai costi di bail-out [salvataggio di istituti creditizi, ndt] e all’utilizzo di stimoli fiscali per affrontare le recessioni che sovente accompagnano le crisi, Reinhart e Rogoff mostrano che il calo del gettito fiscale, insieme a pagamenti più elevati sugli interessi, dovuti alle ricompense sul rischio elevato e ai downgrade sul rating, ha un impatto maggiore. Le entrate del governo,poi, crollano quando l’economia rallenta. Le crisi possono avere impatti di lunga durata sul PIL, sui redditi e, quindi, sulle entrate del governo. Essi constatano che, in media, il debito governativo residuo incrementa dell’86% in tre anni dall’inizio della crisi ― ciò è dovuto per lo più al calo delle entrate piuttosto che agli incentivi discrezionali e ai salvataggi (142). L’attuale crisi globale non fa eccezione ed i debiti governativi stanno crescendo più o meno coerentemente alle loro ricerche. Dobbiamo preoccuparci? Questa non è una crisi qualunque ― non è altro che la peggiore dai tempi della Grande Depressione. Stando al lavoro di Reinhart e Rogoff, anche quando la ripresa comincia a farsi sentire, saremmo ancora per molti anni di fronte a performance  economiche globali al di sotto delle aspettative, le quali produrranno ancor più montagne di debito governativo. Alcune nazioni si sono già avvicinate o hanno addirittura oltrepassato il 90% del rapporto [debito/PIL, ndt], ed anche altre continueranno a farlo. E poiché questa è veramente una crisi globale, i risultati potrebbero essere ancora peggiori, dato che è difficile prevedere da dove verrà fuori il motore della crescita mondiale.

1 Sostanzialmente, per “crowding out” si intende la riduzione della spesa privata (sia investimento sia consumo) a seguito di un aumento della spesa pubblica (Wikipedia), ndt.
2 L’equivalenza Ricardiana (nota anche come Equivalenza di Barro-Ricardo) è una teoria economica che suggerisce come i consumatori interiorizzino i vincoli di bilancio e come quindi la tempistica dei cambiamenti della tassazione non influisca sul loro profilo di spesa. Di conseguenza, l’equivalenza ricardiana suggerisce che la scelta di finanziare le spese governative attraverso l’emissione di debito, piuttosto che con un aumento delle tasse, non abbia influenza sul livello della domanda (Wikipedia), ndt.
3 Nel testo one-armed economists: in inglese operare “con una sola mano” vuol dire operare con fermezza, sicurezza, in quanto in questa lingua l’espressione «da una mano… dall’altra mano» serve per illustrare i pro e i contro di una determinata scelta (cfr. l’articolo http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=7755&ID_sezio ne=29).
4 Serial default nell’originale, ndt.
5 Default virgins nell’originale, ndt.
6 In statistica, un valore mediano è un valore al quale metà dei valori di una distribuzione è inferiore, e l’altra metà è superiore (es. date 10 persone, 2 hanno un’età maggiore di 60 anni e la restante parte si aggira sui 40 anni, l’età mediana in questo caso è 40 anni poiché metà delle persone ha 40 anni o meno, l’altra metà ne ha 40 o più, il valore medio invece sarebbe stato di 44 anni circa), ndt.
Traduzione a cura di Marco Sciortino